Racconti trovati in rete, di famosi e non

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Dragaster Excuriam

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L'ho trovato nel libro di testo di terza di antologia, nella categoria horror, anche se non è per niente un horror. Veramente scritto benissimo, magari l'idea non è originalissima, ma è bellissimo il crescendo di tensione e anche la dolcezza nella rappresentazione dei personaggi (anche della morte).

Il mantello - Dino Buzzati
Dopo interminabile attesa quando la speranza già cominciava a morire, Giovanni ritornò alla sua casa. Non erano ancora suonate le due, sua mamma stava sparecchiando, era una giornata grigia di marzo e volavano cornacchie.
Egli comparve improvvisamente sulla soglia e la mamma gridò: «Oh benedetto!» correndo ad abbracciarlo. Anche Anna e Pietro, i due fratellini molto più giovani, si misero a gridare di gioia. Ecco il momento aspettato per mesi e mesi, così spesso balenato nei dolci sogni dell'alba, che doveva riportare la felicità.
Egli non disse quasi parola, troppa fatica costandogli trattenere il pianto. Aveva subito deposto la pesante sciabola su una sedia, in testa portava ancora il berretto di pelo. «Lasciati vedere» diceva tra le lacrime la madre, tirandosi un po' indietro «lascia vedere quanto sei bello. Però sei pallido, sei.»
Era alquanto pallido infatti e come sfinito. Si tolse il berretto, avanzò in mezzo alla stanza, si sedette. Che stanco che stanco, perfino a sorridere sembrava facesse fatica. «Ma togliti il mantello, creatura» disse la mamma, e lo guardava come un prodigio, sul punto d'esserne intimidita; com'era diventato alto, bello fiero (anche se un po' troppo pallido). «Togliti il mantello, dammelo qui, non senti che caldo?» Lui ebbe un brusco movimento di difesa, istintivo, serrandosi addosso il mantello, per timore forse che glielo strappassero via.
«No, no lasciami» rispose evasivo «preferisco di no, tanto tra poco devo uscire...»
«Devi uscire? Torni dopo due anni e vuoi subito uscire?» fece lei desolata, vedendo subito ricominciare, dopo tanta gioia. l'eterna pena delle madri. «Devi uscire subito? E non mangi qualcosa?»
«Ho già mangiato, mamma» rispose il figlio con un sorriso buono. e si guardava attorno assaporando le amate penombre. «Ci siamo fermati a un'osteria, qualche chilometro da qui...»
«Ah, non sei venuto solo? E chi c'era con te? Un tuo compagno di reggimento? Il figliolo della Mena forse?»
«No, no, era uno incontrato per via. È fuori che aspetta adesso.-«E lì che aspetta? E perché non l'hai fatto entrare? L'hai lasciato in mezzo alla strada?»
Andò alla finestra e attraverso l'orto, di là del cancelletto di legno, scorse sulla via una figura che camminava su e giù lentamente; era tutta intabarrata e dava sensazione di nero. Allora nell'animo di lei nacque, incomprensibile, in mezzo ai turbini della grandissima gioia, una pena misteriosa ed acuta.
«E meglio di no» rispose lui, reciso. «Per lui sarebbe una seccatura, è un tipo così.»
«Ma un bicchiere di vino? glielo possiamo portare, no, un bicchiere di vino?»
«Meglio di no, mamma. È un tipo curioso, è capace di andar sulle furie.»
«Ma chi è allora? Perché ti ci sei messo insieme? Che cosa vuole da te?»
«Bene non lo conosco» disse lui lentamente e assai grave. «L'ho incontrato durante il viaggio. E venuto con me, ecco.»
Sembrava preferisse altro argomento, sembrava se ne vergognasse. E la mamma, per non contrariarlo, cambiò immediatamente discorso, ma già si spegneva nel suo volto amabile la luce di prima.
«Senti» disse «ti figuri la Marietta quando saprà che sei tornato? Te l'immagini che salti di gioia? È per lei che volevi uscire?»
Egli sorrise soltanto, sempre con quell'espressione di chi vorrebbe essere lieto eppure non può, per qualche segreto peso.
La mamma non riusciva a capire: perché se ne stava seduto, quasi triste, come il giorno lontano della partenza? Ormai era tornato, una vita nuova davanti, un'infinità di giorni disponibili senza pensieri, tante belle serate insieme, una fila inesauribile che si perdeva di là delle montagne, nelle immensità degli anni futuri. Non più le notti d'angoscia quando all'orizzonte spuntavano bagliori di fuoco e si poteva pensare che anche lui fosse là in mezzo, disteso immobile a terra, il petto trapassato, tra le sanguinose rovine. Era tornato, finalmente, più grande, più bello, e che gioia per la Marietta. Tra poco cominciava la primavera, si sarebbero sposati in chiesa, una domenica mattina, tra suono di campane e fiori. Perché dunque se ne stava smorto e distratto, non rideva di più, perché non raccontava le battaglie? E il mantello? perché se lo teneva stretto addosso, col caldo che faceva in casa? Forse perché, sotto, l'uniforme era rotta e infangata? Ma con la mamma, come poteva vergognarsi di fronte alla mamma? Le pene sembravano finite, ecco invece subito una nuova inquietudine.
Il dolce viso piegato un po' da una parte, lo fissava con ansia, attenta a non contrariarlo, a capire subito tutti i suoi desideri. O era forse ammalato? O semplicemente sfinito dai troppi strapazzi? Perché non parlava, perché non la guardava nemmeno?
In realtà il figlio non la guardava, egli pareva anzi evitasse di incontrare i suoi sguardi come se ne temesse qualcosa. E intanto i due piccoli fratelli lo contemplavano muti, con un curioso imbarazzo.
«Giovanni» mormorò lei non trattenendosi più. «Sei qui finalmente, sei qui finalmente! Aspetta adesso che ti faccio il caffè.»
Si affrettò alla cucina. E Giovanni rimase coi due fratelli tanto più giovani di lui. Non si sarebbero neppure riconosciuti se si fossero incontrati per la strada, che cambiamento nello spazio di due anni. Ora si guardavano a vicenda in silenzio, senza trovare le parole, ma ogni tanto sorridevano insieme, tutti e tre, quasi per un antico patto non dimenticato.
Ed ecco tornare la mamma, ecco il caffè fumante con una bella fetta di torta. Lui vuotò d'un fiato la tazza, masticò la torta con fatica. «Perché? Non ti piace più? Una volta era la tua passione!» avrebbe voluto domandargli la mamma, ma tacque per non importunarlo.
«Giovanni» gli propose invece «e non vuoi rivedere la tua camera? C'è il letto nuovo, sai? ho fatto imbiancare i muri, una lampada nuova, vieni a vedere... ma il mantello, non te lo levi dunque?... non senti che caldo?»
Il soldato non le rispose ma si alzò dalla sedia movendo alla stanza vicina. I suoi gesti avevano una specie di pesante lentezza, come s'egli non avesse venti anni. La mamma era corsa avanti a spalancare le imposte (ma entrò soltanto una luce grigia, priva di qualsiasi allegrezza).
«Che bello!» fece lui con fioco entusiasmo, come fu sulla soglia alla vista dei mobili nuovi, delle tendine immacolate, dei muri bianchi, tutto quanto fresco e pulito. Ma, chinandosi la mamma ad aggiustare la coperta del letto, anch'essa nuova fiammante, egli posò lo sguardo sulle sue gracili spalle, sguardo di inesprimibile tristezza e che nessuno poteva vedere. Anna e Pietro infatti stavano dietro di lui, i faccini raggianti, aspettandosi una grande scena di letizia e sorpresa.
Invece niente. «Com'è bello! Grazie, sai? mamma» ripeté lui, e fu tutto. Muoveva gli occhi con inquietudine, come chi ha desiderio di conchiudere un colloquio penoso. Ma soprattutto, ogni tanto, guardava, con evidente preoccupazione, attraverso la finestra, il cancelletto di legno verde dietro il quale una figura andava su e giù lentamente.
«Sei contento, Giovanni? sei contento?» chiese lei impaziente di vederlo felice. «Oh, sì, è proprio bello» rispose il figlio (ma perché si ostinava a non levarsi il mantello?) e continuava a sorridere con grandissimo sforzo.
«Giovanni» supplicò lei. «Che cos'hai? che cos'hai, Giovanni? Tu mi tieni nascosta una cosa, perché non vuoi dire?»
Egli si morse un labbro, sembrava che qualcosa gli ingorgasse la gola. «Mamma» rispose dopo un po' con voce opaca «mamma, adesso io devo andare.»
«Devi andare? Ma torni subito, no? Vai dalla Marietta, vero? dimmi la verità, vai dalla Marietta?» e cercava di scherzare, pur sentendo la pena.
«Non so, mamma» rispose lui sempre con quel tono contenuto ed amaro; si avviava intanto alla porta, aveva già ripreso il berretto di pelo «non so, ma adesso devo andare, c'è quello là che mi aspetta.»
«Ma torni più tardi? torni? Tra due ore sei qui, vero? Farò venire anche zio Giulio e la zia, figurati che festa anche per loro, cerca di arrivare un po' prima di pranzo...»
«Mamma» ripeté il figlio, come se la scongiurasse di non dire di più, di tacere, per carità, di non aumentare la pena. «Devo andare, adesso, c'è quello là che mi aspetta, è stato fin troppo paziente.» Poi la fissò con sguardo da cavar l'anima.
Si avvicinò alla porta, i fratellini, ancora festosi, gli si strinsero adso e Pietro sollevò un lembo del mantello per sapere come il fratello fosse vestito di sotto. «Pietro, Pietro! su, che cosa fai? lascia stare. Pietro!» gridò la mamma, temendo che Giovanni si arrabbiasse.
«No, no!» esclamò pure il soldato, accortosi del gesto del ragazzo. Ma ormai troppo tardi. I due lembi di panno azzurro si erano dischiusi un istante.
«Oh, Giovanni, creatura mia, che cosa ti han fatto?» balbettò la madre, prendendosi il volto tra le mani. «Giovanni, ma questo è sangue!»
«Devo andare, mamma» ripeté lui per la seconda volta, con disperata fermezza. «L'ho già fatto aspettare abbastanza. Ciao Anna, ciao Pietro, addio mamma.»
Era già alla porta. Uscì come portato dal vento. Attraversò l'orto quasi di corsa, aprì il cancelletto, due cavalli partirono al galoppo, sotto il cielo grigio, non già verso il paese, no, ma attraverso le praterie, su verso il nord, in direzione delle montagne. Galoppavano, galoppavano.
E allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso, che mai e poi mai nei secoli sarebbero bastati a colmare, si aprì nel suo cuore. Capì la storia del mantello, la tristezza del figlio e soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada. in attesa, chi fosse quel sinistro personaggio fin troppo paziente. Così misericordioso e paziente da accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre), affinché potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuori del cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente affamato.
(da D. Buzzati, Sessanta racconti, Mondadori, Milano 1994)

 
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Bisogna essere lenti - Franco Cassano
Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina.
Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada.
Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto essere felici di avere in tasca soltanto le mani. Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada, bolle che salgono a galla e che quando son forti scoppiano e vanno a confondersi al cielo. È suscitare un pensiero involontario e non progettante, non il risultato dello scopo e della volontà, ma il pensiero necessario, quello che viene su da solo, da un accordo tra mente e mondo.
Andare lenti è fermarsi su lungomare, su una spiaggia, su una scogliera inquinata, su una collina bruciata dall’estate, andare lenti è conoscere le differenze della propria forma di vita, i nomi degli amici, i colori e le piogge, i giochi e le veglie, le confidenze e le maldicenze. Andare lenti sono le stazioni intermedie, i capistazione, i bagagli antichi e i gabinetti, la ghiaia e i piccoli giardini, i passaggi a livello con gente che aspetta, un vecchio carro con un giovane cavallo, una scarsità che non si vergogna, una fontana pubblica, una persiana con occhi nascosti all’ombra. Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia, con desideri immensi sigillati nel cuore e pronti ad esplodere oppure puntati sul cielo perché stretti da mille interdetti.
Andare lenti è ruminare, imitare lo sguardo infinito dei buoi, l’attesa paziente dei cani, sapersi riempire la giornata con un tramonto, pane e olio. Andare lenti vuol dire avere un grande armadio per tutti i sogni, con grandi racconti per piccoli viaggiatori, teatri plaudenti per attori mediocri, vuol dire una corriera stroncata da una salita, il desiderio attraverso gli sguardi, poche parole capaci di vivere nel deserto, la scomparsa della folla variopinta delle merci e il tornar grandi delle cose necessarie. Andare lenti è essere provincia senza disperare, al riparo dalla storia vanitosa, dentro alla meschinità e ai sogni, fuori della scena principale e più vicini a tutti i segreti.
Andare lenti è il filosofare di tutti, vivere ad un’altra velocità, più vicini agli inizi e alle fini, laddove si fa l’esperienza grande del mondo, appena entrati in esso o vicini al congedo.
Andare lenti significa poter scendere senza farsi male, non annegarsi nelle emozioni industriali, ma essere fedeli a tutti i sensi, assaggiare con il corpo la terra che attraversiamo. Andare lenti vuol dire ringraziare il mondo, farsene riempire. C’è più vita in dieci chilometri lenti e a piedi che in una rotta transoceanica che ti affoga nella tua solitudine progettante, un’ingordigia che non sa digerire. Si ospitano più altri quando si guarda un cane, un’uscita da scuola, un affacciarsi al balcone, quando in una sosta buia si osserva un giocare a carte, che in un volare, un faxare, in un internettare. Questo pensiero lento è l’unico pensiero, l’altro è il pensiero che serve a far funzionare la macchina, che ne aumenta la velocità, che si illude di poterlo fare all’infinito. Il pensiero lento offrirà ripari ai profughi del pensiero veloce, quando la macchina inizierà a tremare sempre di più e nessun sapere riuscirà a soffocare il tremito. Il pensiero lento è la più antica costruzione antisismica.
Bisogna sin da adesso camminare, pensare a piedi, guardare lentamente le case, scoprire quando il loro ammucchiarsi diventa volgare, desiderare che dietro di esse torni a vedersi il mare. Bisogna pensare la Misura che non è pensabile senza l’andare a piedi, senza fermarsi a guardare gli escrementi degli altri uomini in fuga su macchine veloci. Nessuna saggezza può venire dalla rimozione dei rifiuti. È da questi, dal loro accumulo, dalla merda industriale del mondo che bisogna ripartire se si vuole pensare al futuro. I veloci, i progettanti, i convegnisti, i giornalisti consumano voracemente il mondo e pensano di migliorarlo. La lentezza sa amare la velocità, sa apprezzarne la trasgressione, desidera anche se teme (quanta complessità apre questa contraddizione!) la profanazione contenuta nella velocità, ma la profanazione di massa non ha nulla della sacertà che pure si annida nel sacrilegio, è l’empietà senza valore, un diritto universale all’oltraggio. Nessuna esperienza è più stolida della velocità di massa, della profanazione che non si sa.
 
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view post Posted on 24/4/2021, 06:42     +1   +1   -1
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Quei 50 mila volumi che non ho mai letto mi regalano la gioia dei futuri godimenti... - Umberto Eco
Una biblioteca serve a tenere i libri che non si sono ancora letti. Io, che ho una biblioteca di 50 mila volumi, debbo ancora leggere come minimo 50 mila volumi. Il bello delle biblioteche è che disegnano un futuro di grandi piaceri e deliziose letture. Appena ho letto un libro lo mando all'università per regalarlo agli studenti, anche i miei. Può succedere che qualcuno entrando nella tua biblioteca ti chieda "Li ha letti tutti?". In quel caso bisogna scegliere una risposta stupida. Più è stupida più soddisfa colui che chiede.
Quella di Roberto Leydi era: "Ne ho letti molti di più". E l'interlocutore piombava in un abisso di sconforto. La biblioteca è una riserva di sapere a cui si può attingere di continuo. Può capitare che, avendo tenuto un libro non letto per trent'anni, il giorno che lo si prende in mano ci si accorga di averlo già letto. Le spiegazioni possono essere diverse. Per quella occultistica ci sono dei fluidi che passano dal libro alla mano. Poi c'è quella randomica: aver toccato quel libro, anche solo per pulirlo, porta poco a poco ad assorbirlo. Infine c'è una spiegazione più scientifica: in quei tren'anni si son letti altri cento libri, ognuno dei quali faceva riferimento a quello, e alla fine è come se quel libro si fosse letto.
Nella mia biblioteca i libri cambiano di posizione a seconda del mio interesse del momento e ciò ha gettato nella disperazione le mie segretarie che tentavano di mettere ordine. Così se in quel momento ho in mente una certa idea, la 'Divina Commedia' può anche finire vicina a Pellegrino Artusi. Nella mia biblioteca ho libri rarissimi, tra cui vari incunaboli. Il più raro è del 1479 ed è un'etimologia di Isidoro di Siviglia. Possedendo molti libri, gli incidenti sono inevitabili. Può accadere di passare notti e notti a cercare un volume, convinti che abbia la costa gialla per poi accorgersi che invece era verde, e alla fine si è perso un sacco di tempo. La famiglia in questo non aiuta: c'è sempre qualcuno che trovando un libro fuori dagli scaffali lo prende e lo rimette nel posto sbagliato. Così per tutta la vita quel libro non si troverà più.
 
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view post Posted on 30/12/2022, 13:23     +1   +1   -1
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In memoria di G.H.K.
«Hölderlin ist Ihnen unbekannt? (non conosce Hölderlin?)» chiese il dottor G.H.K. mentre stava scavando la fossa per la carogna del cavallo.
«Chi era?» chiese la guardia tedesca.
«Colui che ha scritto l'Iperione» spiegò il dottor G.H.K. Gli piaceva molto dare spiegazioni. «La più grande figura del romanticismo tedesco. E Heine, per esempio?».
«Chi sono costoro?» chiese la guardia.
«Poeti» disse il dottor G.H.K. «Non conosce il nome di Schiller?».
«Sì che lo conosco» disse la guardia tedesca.
«E Rilke?».
«Anche lui», disse la guardia e, diventando rosso come un peperone, abbatté con un colpo di pistola il dottor G.H.K.
(Istvan Orkény, Novelle da un minuto)
 
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Pensieri in cantina - Istvan Orkény, da Novelle da un minuto
La palla, attraverso una finestra rotta, cadde nel corridoio di uno scantinato.
Una ragazzina, la figlia quattordicenne della portinaia, la raggiunse zoppicando. Il tram le aveva portato via una gamba, poverina, e lei era contenta quando poteva andare a raccogliere la palla per gli altri.
Nello scantinato regnava una semioscurità, lei tuttavia si accorse che in un angolo qualcosa si muoveva.
«Micetto!» disse la figlia dei portinai che aveva una gamba di legno. «Come sei capitato qui, micettino?».
Raccolse la palla e, come poté, si allontanò veloce.
Il vecchio sorcio, brutto e puzzolente – lui che era stato scambiato per un micino – rimase interdetto. Nessuno gli aveva mai parlato in quel modo.
Prima di allora l'avevano sempre disprezzato, gli gettavano addosso del carbone oppure scappavano via spaventati.
In quel momento e per la prima volta gli venne di pensare a come sarebbe stato tutto diverso se il destino l'avesse fatto nascere gatto.
Anzi dato che siamo degli inguaribili scontenti – continuò a procedere nelle sue fantasticherie. E se fosse nato figlia della portinaia con una gamba di legno?
Ma quella era ormai una cosa troppo bella. Non riusciva neanche a immaginarsela.
 
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Dignità personale - Istvan Orkény, da Novelle da un minuto
 
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CITAZIONE (Skop's @ 2/2/2021, 21:31) 
L'ho trovato nel libro di testo di terza di antologia, nella categoria horror, anche se non è per niente un horror. Veramente scritto benissimo, magari l'idea non è originalissima, ma è bellissimo il crescendo di tensione e anche la dolcezza nella rappresentazione dei personaggi (anche della morte).

Il mantello - Dino Buzzati
Dopo interminabile attesa quando la speranza già cominciava a morire, Giovanni ritornò alla sua casa. Non erano ancora suonate le due, sua mamma stava sparecchiando, era una giornata grigia di marzo e volavano cornacchie.
Egli comparve improvvisamente sulla soglia e la mamma gridò: «Oh benedetto!» correndo ad abbracciarlo. Anche Anna e Pietro, i due fratellini molto più giovani, si misero a gridare di gioia. Ecco il momento aspettato per mesi e mesi, così spesso balenato nei dolci sogni dell'alba, che doveva riportare la felicità.
Egli non disse quasi parola, troppa fatica costandogli trattenere il pianto. Aveva subito deposto la pesante sciabola su una sedia, in testa portava ancora il berretto di pelo. «Lasciati vedere» diceva tra le lacrime la madre, tirandosi un po' indietro «lascia vedere quanto sei bello. Però sei pallido, sei.»
Era alquanto pallido infatti e come sfinito. Si tolse il berretto, avanzò in mezzo alla stanza, si sedette. Che stanco che stanco, perfino a sorridere sembrava facesse fatica. «Ma togliti il mantello, creatura» disse la mamma, e lo guardava come un prodigio, sul punto d'esserne intimidita; com'era diventato alto, bello fiero (anche se un po' troppo pallido). «Togliti il mantello, dammelo qui, non senti che caldo?» Lui ebbe un brusco movimento di difesa, istintivo, serrandosi addosso il mantello, per timore forse che glielo strappassero via.
«No, no lasciami» rispose evasivo «preferisco di no, tanto tra poco devo uscire...»
«Devi uscire? Torni dopo due anni e vuoi subito uscire?» fece lei desolata, vedendo subito ricominciare, dopo tanta gioia. l'eterna pena delle madri. «Devi uscire subito? E non mangi qualcosa?»
«Ho già mangiato, mamma» rispose il figlio con un sorriso buono. e si guardava attorno assaporando le amate penombre. «Ci siamo fermati a un'osteria, qualche chilometro da qui...»
«Ah, non sei venuto solo? E chi c'era con te? Un tuo compagno di reggimento? Il figliolo della Mena forse?»
«No, no, era uno incontrato per via. È fuori che aspetta adesso.-«E lì che aspetta? E perché non l'hai fatto entrare? L'hai lasciato in mezzo alla strada?»
Andò alla finestra e attraverso l'orto, di là del cancelletto di legno, scorse sulla via una figura che camminava su e giù lentamente; era tutta intabarrata e dava sensazione di nero. Allora nell'animo di lei nacque, incomprensibile, in mezzo ai turbini della grandissima gioia, una pena misteriosa ed acuta.
«E meglio di no» rispose lui, reciso. «Per lui sarebbe una seccatura, è un tipo così.»
«Ma un bicchiere di vino? glielo possiamo portare, no, un bicchiere di vino?»
«Meglio di no, mamma. È un tipo curioso, è capace di andar sulle furie.»
«Ma chi è allora? Perché ti ci sei messo insieme? Che cosa vuole da te?»
«Bene non lo conosco» disse lui lentamente e assai grave. «L'ho incontrato durante il viaggio. E venuto con me, ecco.»
Sembrava preferisse altro argomento, sembrava se ne vergognasse. E la mamma, per non contrariarlo, cambiò immediatamente discorso, ma già si spegneva nel suo volto amabile la luce di prima.
«Senti» disse «ti figuri la Marietta quando saprà che sei tornato? Te l'immagini che salti di gioia? È per lei che volevi uscire?»
Egli sorrise soltanto, sempre con quell'espressione di chi vorrebbe essere lieto eppure non può, per qualche segreto peso.
La mamma non riusciva a capire: perché se ne stava seduto, quasi triste, come il giorno lontano della partenza? Ormai era tornato, una vita nuova davanti, un'infinità di giorni disponibili senza pensieri, tante belle serate insieme, una fila inesauribile che si perdeva di là delle montagne, nelle immensità degli anni futuri. Non più le notti d'angoscia quando all'orizzonte spuntavano bagliori di fuoco e si poteva pensare che anche lui fosse là in mezzo, disteso immobile a terra, il petto trapassato, tra le sanguinose rovine. Era tornato, finalmente, più grande, più bello, e che gioia per la Marietta. Tra poco cominciava la primavera, si sarebbero sposati in chiesa, una domenica mattina, tra suono di campane e fiori. Perché dunque se ne stava smorto e distratto, non rideva di più, perché non raccontava le battaglie? E il mantello? perché se lo teneva stretto addosso, col caldo che faceva in casa? Forse perché, sotto, l'uniforme era rotta e infangata? Ma con la mamma, come poteva vergognarsi di fronte alla mamma? Le pene sembravano finite, ecco invece subito una nuova inquietudine.
Il dolce viso piegato un po' da una parte, lo fissava con ansia, attenta a non contrariarlo, a capire subito tutti i suoi desideri. O era forse ammalato? O semplicemente sfinito dai troppi strapazzi? Perché non parlava, perché non la guardava nemmeno?
In realtà il figlio non la guardava, egli pareva anzi evitasse di incontrare i suoi sguardi come se ne temesse qualcosa. E intanto i due piccoli fratelli lo contemplavano muti, con un curioso imbarazzo.
«Giovanni» mormorò lei non trattenendosi più. «Sei qui finalmente, sei qui finalmente! Aspetta adesso che ti faccio il caffè.»
Si affrettò alla cucina. E Giovanni rimase coi due fratelli tanto più giovani di lui. Non si sarebbero neppure riconosciuti se si fossero incontrati per la strada, che cambiamento nello spazio di due anni. Ora si guardavano a vicenda in silenzio, senza trovare le parole, ma ogni tanto sorridevano insieme, tutti e tre, quasi per un antico patto non dimenticato.
Ed ecco tornare la mamma, ecco il caffè fumante con una bella fetta di torta. Lui vuotò d'un fiato la tazza, masticò la torta con fatica. «Perché? Non ti piace più? Una volta era la tua passione!» avrebbe voluto domandargli la mamma, ma tacque per non importunarlo.
«Giovanni» gli propose invece «e non vuoi rivedere la tua camera? C'è il letto nuovo, sai? ho fatto imbiancare i muri, una lampada nuova, vieni a vedere... ma il mantello, non te lo levi dunque?... non senti che caldo?»
Il soldato non le rispose ma si alzò dalla sedia movendo alla stanza vicina. I suoi gesti avevano una specie di pesante lentezza, come s'egli non avesse venti anni. La mamma era corsa avanti a spalancare le imposte (ma entrò soltanto una luce grigia, priva di qualsiasi allegrezza).
«Che bello!» fece lui con fioco entusiasmo, come fu sulla soglia alla vista dei mobili nuovi, delle tendine immacolate, dei muri bianchi, tutto quanto fresco e pulito. Ma, chinandosi la mamma ad aggiustare la coperta del letto, anch'essa nuova fiammante, egli posò lo sguardo sulle sue gracili spalle, sguardo di inesprimibile tristezza e che nessuno poteva vedere. Anna e Pietro infatti stavano dietro di lui, i faccini raggianti, aspettandosi una grande scena di letizia e sorpresa.
Invece niente. «Com'è bello! Grazie, sai? mamma» ripeté lui, e fu tutto. Muoveva gli occhi con inquietudine, come chi ha desiderio di conchiudere un colloquio penoso. Ma soprattutto, ogni tanto, guardava, con evidente preoccupazione, attraverso la finestra, il cancelletto di legno verde dietro il quale una figura andava su e giù lentamente.
«Sei contento, Giovanni? sei contento?» chiese lei impaziente di vederlo felice. «Oh, sì, è proprio bello» rispose il figlio (ma perché si ostinava a non levarsi il mantello?) e continuava a sorridere con grandissimo sforzo.
«Giovanni» supplicò lei. «Che cos'hai? che cos'hai, Giovanni? Tu mi tieni nascosta una cosa, perché non vuoi dire?»
Egli si morse un labbro, sembrava che qualcosa gli ingorgasse la gola. «Mamma» rispose dopo un po' con voce opaca «mamma, adesso io devo andare.»
«Devi andare? Ma torni subito, no? Vai dalla Marietta, vero? dimmi la verità, vai dalla Marietta?» e cercava di scherzare, pur sentendo la pena.
«Non so, mamma» rispose lui sempre con quel tono contenuto ed amaro; si avviava intanto alla porta, aveva già ripreso il berretto di pelo «non so, ma adesso devo andare, c'è quello là che mi aspetta.»
«Ma torni più tardi? torni? Tra due ore sei qui, vero? Farò venire anche zio Giulio e la zia, figurati che festa anche per loro, cerca di arrivare un po' prima di pranzo...»
«Mamma» ripeté il figlio, come se la scongiurasse di non dire di più, di tacere, per carità, di non aumentare la pena. «Devo andare, adesso, c'è quello là che mi aspetta, è stato fin troppo paziente.» Poi la fissò con sguardo da cavar l'anima.
Si avvicinò alla porta, i fratellini, ancora festosi, gli si strinsero adso e Pietro sollevò un lembo del mantello per sapere come il fratello fosse vestito di sotto. «Pietro, Pietro! su, che cosa fai? lascia stare. Pietro!» gridò la mamma, temendo che Giovanni si arrabbiasse.
«No, no!» esclamò pure il soldato, accortosi del gesto del ragazzo. Ma ormai troppo tardi. I due lembi di panno azzurro si erano dischiusi un istante.
«Oh, Giovanni, creatura mia, che cosa ti han fatto?» balbettò la madre, prendendosi il volto tra le mani. «Giovanni, ma questo è sangue!»
«Devo andare, mamma» ripeté lui per la seconda volta, con disperata fermezza. «L'ho già fatto aspettare abbastanza. Ciao Anna, ciao Pietro, addio mamma.»
Era già alla porta. Uscì come portato dal vento. Attraversò l'orto quasi di corsa, aprì il cancelletto, due cavalli partirono al galoppo, sotto il cielo grigio, non già verso il paese, no, ma attraverso le praterie, su verso il nord, in direzione delle montagne. Galoppavano, galoppavano.
E allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso, che mai e poi mai nei secoli sarebbero bastati a colmare, si aprì nel suo cuore. Capì la storia del mantello, la tristezza del figlio e soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada. in attesa, chi fosse quel sinistro personaggio fin troppo paziente. Così misericordioso e paziente da accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre), affinché potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuori del cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente affamato.
(da D. Buzzati, Sessanta racconti, Mondadori, Milano 1994)


C'e' pure ne: La boutique del mistero.
 
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view post Posted on 7/2/2023, 22:34     +1   -1
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Informazioni - Istvan Orkény, da Novelle da un minuto
Da quattordici anni siede nell’androne, dietro a un piccolo sportello scorrevole.
Gli chiedono sempre due cose soltanto.
– Dove sono gli uffici della Montex?
Lui risponde:
– Primo piano a sinistra.
La seconda domanda è:
– Dove si trova la Lavorazione Scarti di Gomma?
Al che lui risponde:
– Secondo piano, seconda porta a destra.
In quattordici anni non si è mai sbagliato, tutti hanno avuto l’informazione esatta. Solo una volta è successo che a una signora, che si era fermata davanti al suo sportello e gli aveva fatto una delle solite domande:
Per favore, dov’è la Montex? – lui, una volta tanto, fissando il vuoto, dicesse:
– Veniamo tutti dal nulla e al fetido nulla torneremo tutti.
La signora sporse reclamo. Il reclamo fu preso in esame, se ne discusse e poi la cosa fu lasciata cadere.
Effettivamente non era un caso tanto grave.
 
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