Racconti trovati in rete, di famosi e non

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view post Posted on 15/4/2012, 07:40     +1   +1   -1
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Dragaster Excuriam

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Giovan Gastoni de' Medici
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Qui mettiamo i vari racconti che troviamo in rete.

Budella - Chuck Palahniuk (Cavie - 2005). Per leggere la versione in lingua originale cliccate qui
Inalate il più possibile.
Questo racconto dovrebbe durare più o meno il tempo che riuscite a trattenere il respiro, più un altro po'. Per cui ascoltate più in fretta che potete.
C'era un mio amico che quando aveva più o meno tredici anni aveva sentito parlare del "pegging". Vuol dire quando ci si fa scopare in culo con un dildo.
Pare che stimolarsi a dovere la ghiandola prostatica ti faccia avere degli orgasmi col botto. E senza mani, per di più.
Alla sua età, questo mio amico è come dire, un po' un maniaco sessuale ed è sempre in cerca di modi nuovi per arraparsi. Ragion per cui esce a comprarsi una carota e della vaselina dolce. Per condurre, ecco, una piccola ricerca privata sulla faccenda. Poi però si immagina al supermercato, la carota e la vaselina che scorrono sul nastro trasportatore in direzione della cassiera. E la gente in coda che osserva. E capisce che gran seratona si è organizzato. Ragion per cui questo mio amico compra latte, uova, zucchero e una carota: gli ingredienti per una bella torta di carote, insomma.
Più la vaselina. Come se si dovesse infilare su per il culo una torta di carote.
A casa smussa accuratamente un'estremità della carota, poi la unge e ci poggia sopra il culo. E non succede nulla. Orgasmo: zero. Niente di niente. Tranne che fa male.
E a quel punto la madre lo chiama perché è pronta la cena. Vieni giù, dice, immediatamente.
Allora lui estrae la carota e la avvolge in un mucchio di indumenti da lavare che poi ficca sotto il letto. Dopo cena va a cercare la carota e non la trova più. Durante la cena sua madre ha raccolto tutti i vestiti sporchi e ha fatto il bucato. Non esiste al mondo che non abbia trovato la carota, ancora unta di vaselina e puzzolente, arrotondata ben bene con un pelapatate appositamente sottratto in cucina.
Questo mio amico per mesi e mesi teme il peggio, terrorizzato che i genitori si decidano a parlargli. Ma non succede mai. Ancora adesso, in età adulta, a ogni cenone natalizio, a ogni festa di compleanno, l'invisibile carotone aleggia su di loro. A ogni caccia al coniglio pasquale con i suoi figli, i nipoti dei suoi genitori, la carota fantasma è sempre lì, sospesa sulle loro teste. Come qualcosa di troppo orribile per essere anche solo nominato.
In Francia c'è un modo di dire che è l'"esprit de l'escalier", lo "spirito della scala", cioè quando trovi la risposta che cercavi ma ormai è troppo tardi.
Per esempio sei a una festa e un tizio ti insulta. Vorresti rispondergli. Ma alla fine, messo alle strette, lì davanti a tutti, dici la prima scemenza che ti passa in testa. Poi, nel momento esatto in cui te ne vai, proprio mentre stai scendendo le scale... miracolo. Ti viene la risposta, quella giusta, quella che avresti dovuto dare. La battuta che piega le gambe. È questo, l'"esprit de l'escalier". Il problema è che neppure i francesi hanno un'espressione per definire le scemenze che in effetti ti escono di bocca quando sei sotto pressione. Quelle disperate idiozie che pensi o che fai.
Esistono azioni talmente penose da non meritare neppure una definizione. Forse sono edonistiche, forse da Elisabetta, forse frassini. Troppo basse perché valga la pena persino di parlarne.
Guardando la casistica passata, gli esperti di problemi infantili e gli psicologi scolastici ammettono che la maggior parte dei suicidi di adolescenti avvenuti per soffocamento ha avuto luogo mentre i suddetti si stavano sparando una sega.
I genitori li trovano così, morti, un asciugamano avvolto, intorno al collo, penzolanti dall'asta dell'armadio. E sperma di cadavere ovunque. Ovviamente puliscono. Gli mettono un paio di pantaloni. Fanno apparire la situazione, come dire, meglio di quella che è. Quanto meno intenzionale. L'ennesimo, triste caso di adolescente suicida.
Un altro mio amico, uno della mia scuola, aveva un fratello arruolato in Marina che gli aveva detto che in Medio Oriente si sparano le seghe in modo diverso da noialtri. Questo fratello era di stanza non mi ricordo in quale paese di cammellieri e laggiù si possono comprare degli aggeggi che assomigliano un po' a dei tagliacarte eleganti. Ognuno di questi aggeggi consiste di una sottile bacchetta di ottone o argento accuratamente levigata, lunga più o meno
come una mano, con all'estremità una specie di pomo di metallo, o rotondo o come l'elsa di una spada.
Il fratello militare del mio amico gli ha spiegato che gli arabi prima se lo fanno venire duro e poi si infilano queste bacchette per tutta la lunghezza del cazzo. Poi, con l'asticella piantata dentro, si fanno una sega. Pare che così sia molto più bello. Più intenso. È questo fratello maggiore che viaggia per il mondo a mandargli di tanto in tanto frasi francesi. O russe. O idee per menarselo meglio. Dopo di che un giorno questo mio amico non si presenta a scuola. La sera mi chiama per chiedermi se per un paio di settimane posso passare a prendere i suoi compiti perché lui è in ospedale. L'hanno messo in una camera insieme con dei vecchi che si devono far operare alle budella. Mi racconta che hanno una sola tivù e che come unico divisorio c'è una tendina. I suoi non vengono a trovarlo. Al telefono mi dice anche che loro, potendo, ammazzerebbero volentieri il suo fratello maggiore, quello che è in Marina.
Al telefono mi racconta che il giorno prima, in camera sua, si stava facendo una canna sul letto. Aveva anche acceso una candela e sfogliando delle vecchie riviste porno gli era venuto di spararsi una sega. Questo succedeva dopo che aveva parlato con suo fratello. Che gli aveva raccontato come se lo menano gli arabi. Il mio amico allora comincia a guardarsi intorno alla ricerca di un attrezzo adatto. Una penna a sfera? Troppo grossa.
Una matita. Anche quella troppo grossa. In più, ruvida. Se non che, lungo la candela c'è una sottile, morbida striscia di cera colata
che potrebbe fare al caso suo. Il mio amico con la punta delle dita la stacca delicatamente dalla candela e la modella tra le palme delle mani. Eccola lì, lunga, liscia e sottile. Stonato e arrapato com'è, se l'infila nel buchino del cazzo e spinge bene in fondo. Dopo di che, con un bel pezzetto che ancora gli fuoriesce, comincia a spipparsi. A tutt'oggi il mio amico giura e stragiura che questi arabi non sono niente scemi. Hanno praticamente reinventato la sega.
Lungo disteso sul letto la situazione si fa così bella che lui dimentica l'asticella. È ormai a un palmo dalla sua brava schizzata quando si accorge che è sparita. L'asticella di cera gli è scivolata dentro. Completamente. Così a fondo che non riesce più a sentirla neppure tastandoselo. E al piano di sotto sua madre intanto lo chiama per la cena. Vieni giù immediatamente, dice.
Il ragazzo della carota e quello della cera sono persone differenti, ma in effetti conducono esistenze praticamente identiche. Dopo cena al mio amico cominciano a fare un gran male le budella. È solo cera, si dice, per cui è convinto che prima o poi gli si scioglierà dentro e riuscirà a pisciarla via. Adesso però gli fa un gran male la schiena. E anche i reni. Praticamente non riesce a stare in piedi.
Mentre il mio amico mi parla al telefono, sento in sottofondo campanelli che suonano, gente che grida. Sembra un telequiz.
I raggi X rivelano la verità, mostrando all'interno della sua vescica un oggetto lungo e sottile ripiegato. E quell'aggeggio a forma di V dentro di lui sta raccogliendo tutti i minerali contenuti nella sua piscia. Sta diventando sempre più grosso e irregolare e, ricoperto del suo bravo strato di cristalli di calcio, sbatacchia qua e là lacerandogli le delicate pareti della vescica e impedendo alla piscia di uscire. Ha i reni praticamente intasati. Il poco che gli esce dal cazzo è striato di sangue. E quel mio amico, di fronte alla famiglia al completo intenta a osservare assieme al dottore e all'infermiera la lastra solcata dalla V bianca della cera, bé, a quel punto deve dire la verità. Il modo in cui si arrazzano gli arabi. E quello che gli ha raccontato il fratello maggiore arruolato in Marina.
Ed è a questo punto, al telefono, che comincia a piangere. L'operazione alla vescica gliel'hanno pagata con i risparmi destinati al college. Per uno stupido errore, addio alla carriera da avvocato. Ficcarsi qualcosa dentro. Ficcarsi dentro a qualcosa. Una candela su per il cazzo o la testa dentro un cappio,
sono comunque guai grossi, lo sapevamo.
A mettere nei guai me è stata quella che chiamavo la Pesca delle Perle. Che poi voleva dire farmi una sega sott'acqua, seduto sul fondo della piscina dei miei. Dopo aver dato un bel respiro, scalciavo fino a toccare il fondo e mi levavo il costume da bagno. Me ne stavo seduto lì per due, tre, anche quattro minuti. A furia di seghe, peraltro, mi era venuta una capacità polmonare pazzesca. Se avessi avuto la casa a mia disposizione sarei andato avanti per tutto il pomeriggio. Quando poi avevo schizzato fuori la mia roba, lo sperma se ne restava lì, sospeso in grandi globuli grassocci e lattiginosi. Poi seguivano altre immersioni per acchiappare il tutto, raccoglierlo e spalmarlo ben bene in un asciugamano. Per questo si chiamava la Pesca delle Perle.
Nonostante tutto quel cloro, a preoccuparmi era mia sorella. Oppure, Dio Onnipotente, mia mamma. La mia peggior paura al mondo era questa: la mia sorellina vergine adolescente che in un primo momento pensa di stare semplicemente ingrassando e poi dà alla luce un ritardato a due teste. E tutte e due le teste sono uguali identiche a me. Me, il padre. E lo zio.
Alla fin fine, però, a metterti nei guai non sono mai le cose che ti preoccupano. La parte migliore della Pesca delle Perle era il foro d'aspirazione per il filtro della piscina e per la pompa della circolazione. Il massimo era starci seduti sopra nudi. Come direbbero i francesi: a chi non piace farsi poppare le chiappe? Però, però. Un momento sei solo un ragazzino arrapato e l'istante dopo puoi dire addio alla tua carriera di avvocato. Un momento sono seduto sul fondo della piscina e il cielo sopra i due metri e mezzo d'acqua fluttua azzurro chiaro sulla mia testa. Il mondo è silenzioso, se si eccettua il battito cardiaco nelle mie orecchie. Per sicurezza, tengo annodato al collo il mio costume da bagno a righe gialle, nel caso che sbuchi fuori un amico, un vicino, o chissà chi a chiedermi perché ho saltato l'allenamento di football. Il risucchio costante del buco di aspirazione della piscina mi titilla e abbandono voluttuosamente il mio scarno, pallido culo a quella sensazione. Un momento ho abbastanza aria in corpo e l'uccello in mano.
I miei sono al lavoro e mia sorella è a danza. A casa non dovrebbe esserci nessuno per ore. La mano mi porta al limite estremo, ma mi fermo. Riemergo per prendere un bel respiro. Mi tuffo e mi riaccomodo sul fondo. E poi ancora e ancora. Dev'essere per questo che alle ragazze piace quando ti si siedono in faccia. Il risucchio è come fare una cagata che non finisce mai. Con l'uccello bello duro e le chiappe risucchiate, non ho bisogno d'aria. Col battito cardiaco che rimbomba nelle orecchie, me ne resto sotto fin quando tante stelline luccicanti non cominciano a insinuarmisi negli occhi. Le gambe stese davanti a me, il retro delle ginocchia che gratta contro il fondo di cemento. I piedi mi stanno diventando blu, le dita delle mani e dei piedi sono tutte raggrinzite per l'immersione prolungata. Ed è proprio a quel punto che mi lascio andare. I grossi sputacchi bianchi cominciano a schizzare. Le perle. Ed è a proprio quel punto che ho bisogno di un po' d'aria. Però, quando cerco di darmi la spinta contro il fondo, non ce la faccio. Non riesco a puntare i piedi sotto di me. Il culo mi è rimasto attaccato. Il personale del pronto soccorso potrà confermarvi che ogni anno circa 150 persone restano incastrate in questo modo, risucchiate dalla pompa della circolazione. A restare incastrati sono i capelli, o il culo, e finisci annegato. Ogni anno succede a un sacco di gente. Per lo più in Florida. La gente semplicemente non ne parla. Nemmeno i francesi parlano proprio di TUTTO.
Tiro su un ginocchio e infilo un piede sotto di me, e sono quasi riuscito a mettermi dritto quando sento qualcosa strattonarmi le chiappe. Insinuo a fatica anche l'altro piede, e mi do la spinta contro il fondo. Riesco a pinnare liberamente, non tocco più il cemento; ma non riesco ad arrivare in superficie. Continuo a dibattermi, dimeno le braccia. Sono grosso modo a metà strada ma non riesco assolutamente a salire più su. Il battito cardiaco nella testa mi si fa sempre più forte e veloce. Bagliori scintillanti di luce mi attraversano frenetici gli occhi, mi giro e guardo sotto di me. E quello che vedo non ha senso.
C'è un grosso cordone, una specie di serpente bianco-azzurrognolo solcato da vene, apparentemente sbucato fuori dallo scarico della piscina, che mi trattiene per le chiappe. Alcune di quelle vene perdono sangue, sangue rosso che però sott'acqua sembra nero e fuoriesce da piccole lacerazioni nella pelle bianchiccia del serpente.
Il sangue si allontana e scompare nell'acqua, e dentro alla sottile pelle bianca-azzurrognola del serpente sono visibili dei bocconi di un pasto semidigerito. Unica spiegazione sensata: un qualche orribile mostro, un serpente marino, un essere che non ha mai visto la luce del giorno, se ne stava nascosto sul fondale scuro della piscina, in attesa di divorarmi. Così... Comincio a prendere a calci la sua pelle viscida e gommosa, attraversata da vene, e mi sembra che continui a uscire dallo scarico della piscina. Ora è lungo più o meno quanto la mia gamba, ma mi è ancora attaccato al buco del culo. Un altro calcio e sono qualche centimetro più vicino a prendere un altro respiro. Sempre con il serpentone appeso al culo, sono un po' più vicino alla fuga. Dentro al serpente sono visibili grumi di mais e di noccioline. Anche una pastiglia oblunga di un arancione vivace. Identica al genere di pillole vitaminiche da cavalli che papà mi fa prendere per aiutarmi a mettere su peso. Per ottenere una borsa di studio per meriti sportivi. Sono addizionate di ferro e di acidi grassi omega tre. È la vista del pillolone di vitamine che mi salva la vita. Perché quello non è un serpente.
È il mio intestino crasso, il mio colon che penzola fuori di me.
Ho avuto quello che i dottori chiamano un prolasso. Quelle sono le mie budella aspirate dallo scarico. Gli infermieri potranno dirvi che la pompa di una piscina aspira 300 litri d'acqua al minuto. Questo significa una pressione di circa 200 chili. Il problema con la "P" maiuscola è che noi esseri umani siamo tutti legati insieme. Il culo, in fondo, non è altro che l'estremità opposta della bocca. Se mi lascio andare, la pompa continuerà funzionare srotolandomi le mie interiora fino a prendermi la lingua. Immaginate di fare una cagata da 200 kg, e capirete il genere di sottosopra. Quel che posso dirvi è che non si sente più di tanto dolore alle viscere. Non allo stesso modo in cui si sente sulla pelle. La roba in digestione i dottori la chiamano materia fecale. In alto invece c'è il chino, sacche di una sottile massa schifosa e semiliquida costellata di mais, noccioline e pisellini verdi.
Intorno a me fluttua un gran minestrone di sangue, mais, merda, sperma e noccioline.
Anche se ho le viscere che mi si stanno srotolando fuori dal culo, e cerco disperatamente di tenermi stretto quello che ne resta, anche allora il mio primo desiderio è di trovare il modo di rimettermi il costume. Dio non voglia che i miei mi vedano l'uccello. Con una mano perciò mi tengo un pugno stretto attorno al culo, con l'altra afferro il mio costume a righe gialle e me lo sfilo dal collo. Rimetterselo, però, è impossibile. Se avete la curiosità di sentire com'è il vostro intestino, compratevi una scatola di quei preservativi di pelle d'agnello. Tiratene fuori uno e srotolatelo. Riempitelo di burro d'arachidi.
Cospargetelo di vaselina e tenetelo sott'acqua. A quel punto provate a strapparlo. Lo troverete resistentissimo e gommoso. E talmente viscido da non riuscire ad afferrarlo. Un preservativo di pelle d'agnello in fondo non è altro che intestino. Ecco, ora avete un'idea di quello con cui ho a che fare. Molli un secondo e sei sbudellato. Nuoti verso la superficie per respirare, e sei sbudellato. Non nuoti e sei affogato. Si tratta di scegliere tra essere morto ora o esserlo tra un minuto a partire da ora. Quello che i miei troveranno, di ritorno dal lavoro, sarà un grosso feto nudo, rannicchiato su se stesso, fluttuante nell'acqua torbida della loro piscina, legato al fondo da uno spesso cordone di vene e di viscere aggrovigliate.
L'esatto opposto di un ragazzo che muore impiccato mentre si sta facendo una sega. Questo è il piccino che hanno portato a casa dall'ospedale tredici anni fa. Il ragazzino che speravano ottenesse una borsa di studio per il football e una laurea. Quello che si sarebbe preso cura di loro durante la vecchiaia. Ecco qua il loro mondo di sogni e di speranze.
Se ne sta lì a galleggiare, nudo e morto. E intorno a lui, grosse perle lattiginose di sperma.
O forse invece i miei mi troveranno avvolto in un asciugamano zuppo di sangue, stramazzato a metà strada tra la piscina e il telefono della cucina, con brandelli di viscere laceri e sfilacciati che ancora penzolano fuori dalla gamba del mio costume da bagno a righe gialle.
Una roba di cui persino i francesi eviteranno di parlare. Quel fratello maggiore del mio amico nella Marina ci ha insegnato un'altra bella frase. Una frase russa. Noi diciamo: «Ho bisogno di questa cosa come di un buco in testa...» e i russi dicono: «Ho bisogno di questa cosa come di un buco del culo coi denti...». Mnye etoh nadoh kahk zoobee v zadnetze. Come quelle storie sugli animali presi in trappola che si strappano a morsi le zampe; bé, il primo coyote che passa vi confermerà che tra darsi un paio di morsi ed essere morti stecchiti proprio non c'è confronto. Cavolo... anche se siete russi, un giorno o l'altro potrebbe accadenti di desiderarli, quei denti.
Altrimenti ecco quello che dovete fare: dovete come torcervi, agganciare un gomito dietro al ginocchio e tirare la gamba il più possibile verso la faccia. Poi cominciate a mordere e dilaniare il vostro stesso culo. Sapete, siete a corto d'aria e quindi disposti a masticare per bene qualsiasi cosa vi faccia arrivare al prossimo respiro. Certo, non è il genere di cosa che ti senti di raccontare a una ragazza al primo appuntamento. Soprattutto se aspiri a un bel bacio della buonanotte. Se vi dicessi che sapore aveva vi garantisco che neanche morti mangereste più calamari.
È difficile dire da cosa rimasero maggiormente orripilati i miei genitori: dal modo in cui mi ero ficcato in quel guaio o dal modo in cui mi ero salvato. Dopo l'ospedale la mamma mi disse: «Non sapevi quello che stavi facendo, tesoro. Eri sotto choc». E tutta la gente disgustata o mossa a compassione nei miei confronti: ho bisogno di loro per davvero come di un buco del culo coi denti.
Adesso mi dicono sempre che sembro troppo pelle e ossa. La gente a cena assume un'aria quietamente incazzata quando non mangio il pasticcio di carne amorevolmente cucinato. Ma a me il pasticcio di carne mi ammazza. Come il prosciutto affumicato. Qualsiasi cosa che se ne stia a bighellonare per le mie viscere per più di un paio d'ore ne fuoriesce ancora sotto forma di cibo. Fagioli caserecci, tranci di tonno, quando mi alzo dal gabinetto, li trovo lì ancora
interi a galleggiare. Del resto, dopo una resezione intestinale non è che digerisci la carne così bene. Come la maggior parte della gente avete un metro e mezzo di intestino crasso. Io mi ritengo fortunato ad avere ancora i miei bravi 15 centimetri.
Per concludere, non ho mai avuto una borsa di studio per il football. Non mi sono mai laureato. Entrambi i miei amici, il ragazzo della cera e il ragazzo della carota, sono cresciuti, sono diventati grandi, ma io non ho mai pesato un etto più di quanto non pesassi quel giorno a tredici anni.
Un altro grosso problema è stato che i miei avevano pagato un sacco di soldi per quella piscina. Alla fine papà ha detto al tizio della piscina che era stato un cane. Il cane di famiglia era cascato dentro ed era annegato e il suo cadavere era stato risucchiato dalla pompa. Anche quando il tizio della piscina ha spaccato il filtro per aprirlo e ne ha pescato fuori un tubo gommoso, un gomitolo acquoso di intestino contenente ancora una grossa pillola vitaminica arancione, papà ha tagliato corto: «Quel cazzo di un cane era proprio fuori di testa». Dalla finestra di camera mia, al piano di sopra, si sentiva papà che diceva: «Quel cane non lo potevi lasciare da solo un secondo...».
Poi a mia sorella non sono più venute le mestruazioni. Nemmeno dopo avere cambiato l'acqua della piscina, dopo avere venduto la casa ed esserci trasferiti in un altro Stato, nemmeno dopo l'aborto di mia sorella i miei hanno fatto più cenno a questa storia. Mai. Quella è la nostra carota invisibile.

Voi. Adesso potete fare un bel respiro profondo.



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Ringraziatemi per questo, se non lo conoscevate.
 
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Dragaster Excuriam

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Dolci ricordi - Renato Fucini (Le veglie di Neri - 1882)
Ed anche lui è morto! Sotto quell'aspetto mite e sereno, sotto quel sorriso che, tra gli amici, gli brillava fisso nei piccoli occhi azzurri, tutti credevano ad un'anima lieta e spensierata; nessuno, tranne io, ad un carattere pensoso e forte.
A dodici anni lasciò, per gli studi, la casa paterna e, solo, lontano da' suoi, in quell'età nella quale, pur vagheggiando lo spazio, sentiamo sempre il bisogno d'esser covati dalla mamma come rondinotti prima di fidarsi al volo, dovette avventurarsi nel turbine della vita a farvi da uomo quasi innanzi d'esser ragazzo.
«Ma fu la mia salute e vinsi!», mi diceva spesso con orgoglio, «vinsi, perché armato, fino dall'infanzia, di quell'educazione larga ma onesta, qualche volta romantica ma sempre vigorosa, che i nostri vecchi liberali davano ai loro figli, allevando uomini forti d'animo e di braccio, non ganimedi parrucchieri ed isterici.»
«O senti», mi diceva una notte mentre lo vegliavo ammalato, «senti un saggio originale del metodo, una scenetta di famiglia che, dopo tanti anni, ho sempre fresca qui nella memoria fra i miei ricordi più dolci.
Mio padre, medico in un comunello di montagna, guadagnava, quando io ero ragazzetto, cinque paoli al giorno, che oggi sarebbero due lire e ottanta centesimi. Coi miseri incerti di qualche consulto, di qualche operazioncella e di qualche visita fuori della condotta si può calcolare che il suo guadagno arrivasse a circa quattro lire, piuttosto meno che più. Con queste doveva mantenere decorosamente la sua famiglia, un cavallo, un servitore, e me all'Università... Vado per le leste e perché sento che il discorrer troppo mi aggraverebbe il petto e tu forse ti annoieresti.
Una sera dopo le vacanze del Natale, avevo allora diciassette anni, torno a Pisa con la mia mesata d'ottanta lire nel portafogli. Il rivedere gli amici mi mette allegria, vado a cena con una brigata di quei bontemponi, bevo, mi elettrizzo, giro cantando per le vie della città fino ad ora tarda, e da ultimo casco in una casa da giuoco, dove in un paio d'ore lascio tutta la mesata, più trenta lire di debito con un amico che me le prestò. Una piccolezza, se vogliamo, ma una piccolezza che per le condizioni della mia famiglia era grave, forse troppo grave.
Arrivato nella mia cameruccia, mi buttai sul letto, ma non potei dormire. Sbuffai, mi svoltolai continuamente senza trovar riposo. Ebbi qualche breve dormiveglia, ma fu peggio. Brillanti, assassini, miniere d'oro, coltellate, mostri paurosi, corse a perdita di fiato per deserti a perdita d'occhio, urli, fischi, imprecazioni... sognai un po' di tutto; e finalmente un grande scossone e tanto d'occhi spalancati, grondante di sudore. «Che si fa?», pensavo. «Chiedo a qualche amico? Scrivo a qualche parente? a mia madre? a mio...? Ah!... qui bisogna uscirne presto. Un atto di contrizione, un po' di dramma, quattro urlacci, due tonfi, magari... e perché no? magari una fitta di scapaccioni, e tutto è finito, e non ci si pensa più.» Salto giù dal letto, mi faccio prestare pochi soldi dal primo amico mattiniero che incontro, mi rincantuccio in un vagone di terza classe, e via a casa.
Il viaggio mi fece bene. Parlai continuamente di politica, di guerra e di donne con un associatore di libri che andava a Signa, ed ebbi dei momenti nei quali, sognando sul serio gloria, armi ed amori, in faccia al mio associatore che mi guardava, stava zitto e fumava la pipa, dimenticate le mie miserie, mi sentii quasi orgoglioso d'aver anch'io la prima bravata da raccontare. Ma quando vidi spuntare fra i boschi la torre del mio paesello, eppoi il tetto della mia casa e il fumo che usciva dalla torretta del suo cammino, la baldanza mi cadde e sentii le gambe che mi tremavano.
Quand'arrivai a casa, mio padre non c'era. Mia madre si spaventò perché, vedendomi pallido, mi credette malato. «Non ho nulla, sto bene... proprio sto bene.» Il suo viso si rasserenò subito e, fatta forte da questa buona certezza, ascoltò abbastanza tranquilla, mentre preparava il desinare, il racconto che le feci dal canto del fuoco, dove m'ero rannicchiato, scaldandomi alla fiamma che schioccava allegra sotto un paiolo di rape. Quando ebbi terminato: «Figliolo!... io ti domando come si deve fare a dirlo a quell'omo!», esclamò guardandomi sgomenta. Poi dopo una lunga pausa pensosa: «È impossibile! Come vuoi che faccia a renderti ora una mesata, se ce n'ha appena tanti per andare avanti noi?!... Trovarli!... E dopo?... Non c'è carità, in questo momento non c'è carità... Gli sta peggio quel malato e pare che vada a morire...»
Io stavo zitto a guardarla, lei si chetò. Il tepore del mio nido, la stanchezza e il mugolìo del vento su per la gola del camino mi conciliarono il sonno e, senza accorgermene, mi addormentai col capo appoggiato sulla spalliera della seggiola. Quando mi destai, vidi mio padre seduto dall'altra parte del focolare, che si asciugava alla fiamma i calzoni fradici di pioggia. Pareva stanco ed era pallido. Tossiva malamente ed aveva schizzi di fango fino sulla faccia. Sentendomi muovere, alzò la testa. «Buon giorno, babbo.» «Buon giorno», mi rispose. E non mi disse altro. Dopo qualche momento si alzò, disse a mia madre d'affrettare il desinare perché aveva bisogno d'escir subito, e andò in camera sua.
«Glie l'hai detto?», domandai trepidante a mia madre. Essa mi accennò di sì. «Che ha detto?» «Ha domandato come stavi e s'è messo a leggere.»
Il desinare fu nero. I miei vecchi barattarono fra loro poche parole d'affarucci di famiglia, ed io, sempre aspettando una tempesta, che mi avrebbe fatto tanto bene al core per votarlo d'urli, di bile e magari di pianto; per vedere se in una sfuriata trovavo la gretola di non avere tutto il torto io, ebbi a rimanere gelidamente trafitto dalle poche parole che nel tòno usuale e quasi con amorevolezza mi rivolse mio padre. «Beppe l'hai veduto?» (era un suo vecchio compagno di studi che io avevo sempre l'incarico di salutare quando andavo a Pisa). «No...» «Domattina partirai col primo treno... Ti chiamerò presto perché dovrai andare alla stazione a piedi... Del cavallo ne ho bisogno io.» «Sì.» Finito il desinare, andò via. Tornò a sera inoltrata, prese un boccone e andò a letto, dopo avermi fatto con gli occhi stanchi una burbera carezza.
La mattina dopo, mi svegliò alle cinque. Era buio, freddo, vento e nevicava forte. Quando uscii di camera, mia madre, già alzata, mi aspettava per dirmi addio. «Gli ha lasciati a te i quattrini?» le domandai sotto voce. «È là fòri che ti aspetta.» Corsi sulla porta e alla luce della lanterna con la quale il servitore ci faceva lume, lì davanti, mio padre già a cavallo, immobile, rinvoltato nel suo largo mantello carico di neve. «Tieni» mi disse, parlando rado e affondandomi ad ogni parola un solco nell'anima. «Prendi... Ora è roba tua... Ma prima di spenderli!... Guardami!...», e mi fulminò con un'occhiata fiera e malinconica. «Prima di spenderli, ricòrdati come tuo padre li guadagna.»
Una spronata, uno sfaglio, e si allontanò a capo basso nel buio, tra la neve e il vento che turbinava.


 
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Ora vi racconto un’ultima storia, prima di lasciarvi, e sono sicuro che questa non vi deluderà, e magari vi farà anche ridere. Si tratta di una storia molto vecchia, che in tanti hanno raccontato in tanti modi diversi, anche se sotto sotto è rimasta sempre uguale: solo che voi siete piccoli, e molto probabilmente non la conoscete ancora. È la storia di un uomo infelice, che aveva una vite d’oro nell’ombelico e non riusciva a liberarsene. Era andato da dottori, meccanici, carrozzieri, chirurghi, orafi, ferramenta e fattucchiere, in tutto il mondo, nella speranza che qualcuno di loro riuscisse a togliere quella vite: nulla, nessuno era mai riuscito anche solo a smuoverla di un millimetro. Ma l’uomo non si era arreso, e aveva continuato a girare il mondo, ostinato, alla ricerca di qualcuno che riuscisse a togliergli quella vite d’oro dall’ombelico. Finché, un giorno, si recò dall’Imperatore del Giappone – che, come spesso accade in quel saggio paese, era un bambino. L’uomo gli mostrò la vite e, a gesti, poiché non sapeva una parola di giapponese, gli fece capire qual era il suo problema. L’Imperatore bambino guardò la vite, sorrise, poi si girò lentamente e si mise a frugare in una grande scatola d’avorio che teneva nascosta dietro il trono, finché ne cavò un minuscolo cacciavite d’oro, talmente piccolo che sembrava uno spillo. Lo mostrò all’uomo e, sempre sorridendo, pronunciò nella sua lingua una frase incomprensibile, dal suono però meraviglioso, come una manciata di campanelle d’argento lasciate cadere su un cuscino di piume. L’uomo, che non aveva capito nulla, annuì, e l’Imperatore allora estrasse dalla sua scatola un drappo di seta viola e lo stese sul pavimento, con molta cura. Quando ebbe eliminato anche la più piccola piega vi fece inginocchiare l’uomo, vi si inginocchiò a sua volta e si mise al lavoro. Pareva veramente impossibile che un cacciavite così microscopico potesse svitare una vite così grossa, ma la vite cominciò a girare senza fatica, e, girando, a uscire dall’ombelico: un giro, due giri, tre giri, la vite uscì sempre di più, finché fu completamente fuori, e l’Imperatore bambino la mostrò all’uomo tenendola tra le dita. L’uomo allora si guardò la pancia e sbalordì: per la prima volta la vide normale, liscia e senza viti come quella di tutti gli altri. Era libero: la sua tenacia era stata premiata, la maledizione che lo aveva accompagnato per tutta la vita era finita. Balzò in piedi, pazzo di felicità, e gli cadde il culo per terra.

Sandro Veronesi, La forza del passato, pagg. 249-250.

 
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NOVELLA CCVII
A Buccio Malpanno d'Amelia è fatto credere, colicandosi un frate minore con una sua donna e lasciandovi le brache, che quelle son quelle di santo Francesco, ed egli se 'l crede.

D'altra maniera e altro inganno fu questo che viene, essendo a uno semplice marito da uno frate minore mostrata la luna nel pozzo. Nella città d'Amelia fu già uno semplice uomo, chiamato Buccio Malpanno, e avea una sua moglie che avea nome donna Caterina, d'etade di venticinque anni, assai bella e non meno cortese, e spezialmente a uno giovene frate Antonio del detto ordine, dal quale, come da suo devoto, spesso era visitata; tanto che forse, perché il marito era magretto e di poco spirito, e una cosa e un'altra, il detto frate usufruttava piú i suoi ben temporali che non facea elli.
Avvenne per caso che Buccio, avendo una notte la guardia, come spesso in molte terre interviene, il detto frate diede posta d'andare a giacere con la detta donna Caterina: e perché de' piú de' suoi pari viene un poco di caprino, elli s'avea tratto li panni lini suscidi e aveasi mutato panni lini sottili e bianchissimi. E tutto fatto, e giunto nella camera della donna, andandosi a coricare, si cavò le bianche brache e misele sul capezzale. Di che occorse per alcuno accidente che Buccio, avendo bisogno d'essere a casa, ebbe la parola dall'officiale della guardia; e giugnendo all'uscio, mettendo la chiave nel serrame, e volgendola per aprirlo, il frate, sentendo il saliscendo, subito si leva, come colui che era destrissimo e sospettoso, e aggrappato la tonaca e gli altri panni e, non accorgendosi, lasciando le brache, si gettò da una finestra non molto alta dalla via, e 'l meglio che poteo s'andò con Dio.
Buccio, giunto alla camera, s'andò a posare nel luogo suo, il quale era stato di poco sagrato; e dormito che ebbono egli e la donna, che n'aveano aúto bisogno, sí per lo vegliare della guardia e per lo vegliare del culatario, infino a dí chiaro; aprendo la finestra, e veggendo Buccio le brache sul capezzale, credendo che fossono le sue, le prese per mettersele; e guarda su la cassa, ne vide un altro paio; di che in sé pensando dice: "Che vuol dire questo? io so bene che io non porto due paia di brache"; e conosciuto che quelle del capezzale non erano le sue, le ripose in una cassa e misesi le sue.
E immaginando d'un pensiero in un altro di cui potessono essere le brache, che alla grandezza pareano state d'uno gigante, gli era intrato una malinconia che quasi non mangiava. Frate Antonio dall'altra parte, parendoli avere mal fatto di avere lasciato le brache o la trabacca che fosse, secretamente lo fece sapere alla donna, raccomandandoli le brache che avea lasciate. La donna, che niente non sapea, non trovandole, veggendo il marito cosí malinconoso, si pensò troppo bene che esso l'avesse trovate e riposte; e stava con gran timore, come ch'ella non lo mostrasse; donde, non potendo adempire quello che 'l suo devoto volea, li rispose che 'l marito l'avea trovate e ch'ella non sapea dov'ella si fosse, tanto dolore n'avea, immaginando che scusa da potere fare non avea, e aspettava la mala ventura.
Sentito il frate questo, e per lei e per lui li parve essere a mal partito. E dolutosi di ciò segretamente con un frate Domenico molto suo fidato, il quale, perché era molto scienziato e sperto, gli era data molta fede, e ancora d'anni era assai antico; a cui il detto frate Domenico diede con parole assai riprensione; e per ovviare alla infamia dell'ordine prima, e poi a quella di frate Antonio, disse alla fine:
- Or ecco, io m'ingegnerò levare questo sospetto a Buccio -; e disse a frate Antonio: - Andiamo, tanto che troviamo il detto Buccio; e lascia dire a me.
E cosí si misono in via, e tanto andorono che scontrorono il detto Buccio; e andati verso lui, frate Domenico salutandolo il prese per la mano, e guardandolo in viso, li disse:
- Buccio mio, tu hai malinconia.
Disse Buccio:
- O di che? non ho malinconia alcuna.
E frate Domenico disse:
- Veramente io il so per revelazione di santo Francesco; e per la verità io volea venire a casa tua per una reliquia che la tua donna portò a questi dí. E acciò che tu lo sappi bene, noi abbiamo una reliquia, la quale ha grandissima virtú a fare generare le donne che non menano figliuoli, e queste sono li panni di gamba del beato messer santo Francesco, le quali spesso prestiamo per questa cagione; e recandole una donna, che l'avea accattate, alla nostra sagrestia, abbattendovisi la donna tua, e sentendo la virtú loro e ch'ella era sterile, con grandissima benignità me le chiese acciò che santo Francesco gli desse grazia di fare figliuoli, com'ella desiderava; e io, considerando l'amore che io ti porto, glile prestai, e halle tenute piú dí. Ora, essendomi chieste per altre donne, ché ce ne sono assai che non fanno figliuoli, ce ne conviene pur servire ed esserne piú larghi forse che non si converrebbe; sí che io t'ho chiarito, s'alcuno sospetto avessi. E però ti prego che non t'incresca che andiamo per esse con quella reverenza che si conviene, però che sono reliquie di povertà e d'umiltà.
Detto che ebbe il frate queste parole, disse Buccio:
- Io credo che voi siate l'Angelo di Dio, che ogni cosa m'avete detto di che io dubitava, e avetemi ben chiarito ogni mio sospetto che era di male, dov'egli è sommo bene.
E cosí si misono in via, andando alla casa di detto Buccio; là dove giunti, disse il frate:
- Dov'è questa santa reliquia?
E Buccio lo menò a una cassa, dov'erano altre masserizie, e disse:
- Queste sono desse -; essendovi continuo presente la donna.
Quando il frate vede come l'ha tenute, trae fuori uno mantile di seta, e dice:
- Buccio mio, sono queste cose d'averle tenute in tal maniera? tu hai peccato mortalmente.
E prese le dette reliquie, e mettendole nel mantile della seta, cominciò a dire: De profundis clamavi , e molti altri salmi, per darli meglio a credere la bugia; e oltre a ciò li fece la confessione; e dandoli a credere che era caduto in iscomunicazione, dandoli molto bene d'una mazzuola su le spalle, lo ricomunicoe con molti ammaestramenti, li quali tutti furono in favore dell'appetito di frate Antonio, mettendo ad esecuzione come li piacque.
Il cattivello di Buccio si rimase con questa credulità, aspettando ogni dí ch'ella fosse gravida; ma ben lo poté aspettare, ché tutto il tempo della vita sua donna Caterina non fece figliuoli, ma ben se ne sforzò con frate Antonio quanto poteo. E frate Domenico con frate Antonio se ne portorono quella culare reliquia, la quale con altre donne non adoperò forse meno per li tempi avvenire che avesse adoperato con donna Caterina.
Che sperienza o che arte dirén noi che fosse questa che usò questo frate Domenico? che, essendoli dato piú fede che ad alcun altro frate di tutto l'ordine, abbandonò ogni onestà per ricoprire il defetto del suo compagno, ed eziandio del suo convento; e volendo ricoprire questo disonesto adulterio, maggiore disonestà usò contro al beato messer santo Francesco sotto il cui ordine vivea, e a cui elli intitoloe cosí venerabile reliquia; che ben potea almeno averla intitolata in qualche altro, come che male era; ma molto era il meglio che avesse tenuto con gastigamento e con sí stretta vita frate Antonio che 'l disordinato caldo li fosse attutato; ma non si vergognò di ciurmare, e di trovare una cattiva falsità, intitolando san Francesco, il quale tra quanti santi sono non truovo in alcuno mostrarsi tanto miracolosa e divina potenza quanta il nostro Signore mostrò in lui, a segnarlo delle sue preziose stimate sul santo monte della Vernia. Il quale luogo, se fosse tra gl'Infedeli, se ne farebbe molto maggiore stima che a esserci cosí presso; però che in tutto il mondo sono due luoghi superlativamente notabili; il primo tra gl'Infedeli è il Sepolcro, il secondo tra Cristiani è questo.
E questo ipocrito, piú tosto rubaldo che religioso, essendo suo frate, non si vergognò in sí vituperosa opera comporre una falsità, con tanta disonestà del beato messer santo Francesco, di cui era frate: ma a lungo andare la comperò come meritava; perché divenne lebbroso in forma che convenne si dilungasse e dall'ordine e dalla terra. E piú anni vivette con sí puzzolente infirmità, e poi morí come era degno. E fu de' miracoli che fa il nostro Signore, che questo ipocrito e vizioso frate, mostrando, con la coverta di santo Francesco, essere un uomo di santa vita, convenne che mostrasse di fuori con malattia di lebbra, la quale stava dentro del suo corpo coverta, il suo difetto.
 
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La cavalla morta - Curzio Malaparte
Già scendeva la sera, le fucilate dei partigiani bucavano l'immensa bandiera rossa del tramonto, che sventolava in fondo all'orizzonte, nel vento polveroso. Ero giunto ormai a poche miglia da Nemirowskoie, presso balta, in Ucraina. Era l'estate del 1941.
Volevo spingermi fino a Nemirowskoie, per passarvi al sicuro la notte. Ma era già buio, e scelsi di fermarmi in un villaggio abbandonato, in fondo a una di quelle vallate che tagliano l'immensa pianura fra il Dniester e il Dnieper.
Il villaggio si chiamava Alexandrowka. In Russia, i villaggi si assomigliano tutti, anche nel nome. Ci sono molti villaggi che si hanno il nome di Alexandrowka, nella regione di Balta. Ce n'è uno a ovest di Gederimova, sulla strada di Odessa, dove passa la ferrovia elettrica; un altro a circa nove miglia a nord di Gederimowa. Quello dove m'ero fermato per trascorrere la notte era presso Nemirowskoie, sulle rive del fiume Kodima.
Avevo lasciato la macchina, una vecchia Ford, sul lato della strada, contro lo steccato che circondava l'orto di una casa di aspetto civile. Presso il cancelletto di legno che si apriva nello steccato era distesa una carogna di cavallo. Mi fermai un momento a osservarla: era una magnifica giumenta, dal mantello rosso scuro, dalla lunga criniera bionda. Giaceva riversa sul fianco, le zampe posteriori immerse in una pozzanghera. Spinsi il cancello, attraversai l'orto, appoggia la mano contro la porta, che si aprì cigolando. La casa era abbandonata: i pavimenti delle stanze apparivano sparsi di carte, di paglia, di giornali, di indumenti. I cassetti dei mobili erao aperti, gli armadi spalancati, i letti disfatti. Non era certo la casa di un contadino; forse quella di un ebreo. Il materasso del letto, nella stanza dove scelsi di coricarmi, era sventrato. I vetri della finestra apparivano intatti. Faceva caldo. «Il temporale»,pensai chiudendo la finestra.
Nell'incerta luce della sopravvenuta notte splendevano nell'orto i grandi occhi neri dei girasoli, dalle lunghe ciglia dorate. Mi guardavano stupiti, dondolando la testa nel vento già umido di pioggia lontana. Sulla strada passavano soldati romeni di cavalleria, tornavano dall'abbeverata conducendo per la cavezza i bei cavalli dai fianchi pieni, dalle criniere bionde. Le uniformi color sabbia facevano nell'ombra macchie giallastre, parevano grossi insetti invischiati nell'aria densa e viscida del temporale imminente. I gialli cavalli li seguivano, sollevando un nembo di polvere.
Avevo ancora un po' di pane di formaggio nel mio sacco da montagna, e mi misi a mangiare, camminando in su e in giù per la stanza. M'ero tolto gli stivali, e camminavo a piedi nudi sul pavimento di terra battuta, percorso da colonne di grosse formiche nere. Sentivo le formiche arrampicarsi su per i miei piedi, penetrar fra un dito e l'altro, salire ad esplorar la caviglia. Ero stanco morto, non riuscivo neppure a masticare, tanto avevo le mascelle pesanti, i denti indolenziti dalla fatica. Mi buttai finalmente sul letto, chiusi gli occhi, e non potevo pigliar sonno. Ogni tanto qualche fucilata vicina, lontana, bucava la notte; erano gli spari dei partigiani partigiani, nascosti nei campi di grano e nelle selve di girasoli che coprono tutta l'immensa pianura ucraina, verso Kiew, verso Odessa. E a mano a mano che la notte si faceva più densa, un odore di carogna di cavallo si scioglieva nell'odore dell'erba e dei girasoli. Non potevo dormire. Ero disteso sul letto a occhi chiusi, e non potevo pigliar sonno, tanto la fatica mi doleva nelle ossa.
All'improvviso, l'odore della cavalla morta entrò nella stanza, si fermò sulla soglia. Sentivo che l'odore mi guardava. «È la cavalla morta» pensai nel dormiveglia. L'aria era pesante come una coperta di lana, il temporale schiacciava i coperti di paglia del villaggio, premeva con tutto il suo peso sugli alberi, sul grano, sulla polvere della strada. Il rumore del fiume giungeva a tratti, come un fruscio di piedi scalzi nell'erba. La notte era nera, densa e viscida come miele nero. «È la cavalla morta», pensai.
Attraverso i campi veniva un cigolio di carri, di quelle caruzze romene e ucraine a quattro ruote, trainate da cavallucci magri e pelosi, che seguono gli eserciti carichi di munizioni, di indumenti, di armi, sulle interminabili piste dell'Ucraina. Veniva attraverso i campi il cigolio dei carri. Pensai che la giumenta morta si fosse trascinata sulla soglia della stanza e ora dalla soglia mi guardasse. Non so, non saprei dire come mi venne da pensare che la cavalla morta si fosse trascinata fin sulla soglia della stanza. Ero stanco morto, ero tutto invischiato nel sonno, non riuscivo a dipanar e idee, era come se il buio, il caldo, e l'odore della carogna riempissero la stanza di un fango nero e viscido, dove, affondando a poco a poco, mi dibattevo sempre più debolmente. E non so come, pensai che forse la cavalla non era del tutto morta, era soltanto ferita, e già fosse marcia nella parte ferita, già si disfacesse, e tuttavia fosse viva: come quei prigionieri che i tartari legano vivi ai cadaveri, il ventre contro il ventre, il viso contro il viso, la bocca sulla bocca, finché il morto mangia il vivo. Eppure quell'odore di carogna era sulla porta, e mi guardava.
A un tratto sentii che si avvicinava, che si accostava lentamente al mio letto. «Via, via!», gridai in romeno, «merge! merge!». Poi pensai che forse la cavalla morta non era romena, ma russa, e gridai: «Pasciol, pasciol!». L'odore si fermò. E dopo un istante riprese ad avvicinarsi lentamente al mio letto. Allora ebbi paura, afferrai la pistola che avevo ficcata sotto il materasso, e balzato a sedere sul letto premei lo scatto della mia lampada elettrica.
La stanza era vuota, la soglia era deserta. Scesi dal letto, e a piedi nudi mi avvicinai alla porta, mi avvicinai alla soglia. La notte era vuota. Uscii nell'orto. I girasoli scricchiolavano dolcemente nel vento, il temporale incombeva all'orizzonte, pareva un enorme polmone nero, che respirava a fatica. Gonfio, vuoto, come un enorme polmone. Vedevo il cielo dilatarsi, restringersi, vedevo il cielo respirare, bagliori sulfurei tagliavano di sbieco quell'enorme polmone, illuminando per un istante l'albero delle vene e dei bronchi. Spinsi il cancelletto di legno, uscii sulla strada. La carogna giaceva riversa nella pozzanghera, la testa posata sul ciglio polveroso della strada. Aveva la pancia gonfia, tutta screpolata. L'occhio splendeva sbarrato, umido e tondo. La bionda criniera polverosa, imbrattata di croste di sangue e di fango, si drizzava rigida sul collo, come le criniere equine degli elmi degli antichi guerrieri. Mi sedei sul ciglio della strada, le spalle appoggiate allo steccato. Un uccello nero fuggì via con un volo nero e silenzioso. Fra poco pioverà. Il cielo era percorso da invisibili raffiche, nubi di polvere passavano lungo la strada, con lieve e lungo sibilo, i granelli di polvere mi bucavano il viso, le palpebre, mi camminavano nei capelli come formiche. Fra poco pioverà. Rientrai in casa, mi buttai sul letto. Mi dolevano le braccia e le gambe, ero tutto madido di sudore. E all'improvviso mi addormentai.
Ed ecco che l'odore della carogna si avvicinò nuovamente, si fermò sulla soglia. Non ero sveglio del tutto, avevo ancora gli occhi aperti e sentivo che l'odore mi guardava. Era un fetore molle e grasso, un odore molle e viscido, profondo, un odore giallo, tutto macchiato di verde. Aprii gli occhi, era l'alba. La stanza era attraversata da una ragnatela di luce incerta, bianchiccia, gli oggetti uscivano a poco a poco dall'ombra con una lentezza che pareva deformarli, allungandoli, come oggetti estratti dal collo di una bottiglia. Fra la porta e la finestra era appoggiato al muro un armadio; le grucce pendevano nude, dondolando; il vento muoveva le tendine della finestra; sul pavimento di terra battuta erano sparsi mucchi di carta, indumenti, mozziconi di sigaretta, e le cate frusciavano nel vento.
A un tratto l'odore entrò, e sulla soglia apparve un puledrino. Era magro e peloso. Mandava un fetore di marcio, di carogna di cavallo. Mi guardava fisso, sbuffando. Si accostò al letto, allungando il collo, mi fiutò. Puzzava orribilmente. Al gesto che feci per buttare le gambe giù dal letto, si voltò di scatto, sbatté il fianco dell'armadio, fuggì con un nitrito di spavento. M'infilai gli stivali, uscii fin sulla strada. Il puledrino era disteso acanto alla giumenta morta. Mi guardava fisso. «Asculta!» gridai a un soldato romeno che passava portando un secchio d'acqua. Gli dissi che si prendesse cura del puledro.
«È il figlio della cavalla morta,» disse il soldato.
«Sì, - dissi - è il figlio della cavalla morta.»
Il puledrino mi guardava fisso, strofinando il dorso contro il fianco della carogna. Il soldato si avvicinò al puledro e si mise a lisciargli il collo.
«Bisogna portarlo via dalla madre, finirà per marcire anche lui, se rimane qui. Sarà il portafortuna del tuo squadrone,» dissi.
«Sì, - disse il soldato - sì, povera bestia. Porterà fortuna allo squadrone.» Così dicendo si era sciolta la cinghia dei calzoni e passatala attorno al collo del puledrino, che sulle prime non voleva alzarsi, poi s'era alzato di scatto, e recalcitrava, torcendo il collo verso la madre morta e nitrendo si avviò verso l'accampamento, nel bosco, tirandosi dietro il puledro. Rimasi un istante a seguirlo con gli occhi, poi aprii lo sportello della macchina, accesi il motore. Avevo dimenticato il sacco da montagna. Rientrai nella casa, presi il mio sacco e, dato un calcio alla porta, mi avviai sulla strada per Nemirowskoie.
Il fiume luccicava stranamente nella luce bianchiccia dell'alba. Il cielo era cupo, sembrava un cielo invernale, il vento soffiava sul fiume, nubi di polvere passavano basse all'orizzonte, dense e rossastre, come nubi fuggite da un incendio. Uccelli acquatici, nei canneti lungo le rive, facevano il loro rauco verso, stormi di anatre selvatiche si levavano a volo remigando lente a fior d'acqua tra le selve di giunchi tremanti nel brivido acerbo del mattino. E dappertutto pesava quell'odore di cose marce, di materia in decomposizione.


Avrei gradito di più se il rumeno, completamente incapace di sentimenti, avesse ammazzato il puledro ghignandosela :rotfl:
 
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Fanciullo Orsù
view post Posted on 5/12/2013, 02:06     +1   -1




Come ho detto altre volte, leggerò domani.
 
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view post Posted on 14/1/2014, 18:51     +1   -1
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CITAZIONE (Fanciullo Orsù @ 5/12/2013, 02:06) 
Come ho detto altre volte, leggerò domani.

Sì, chiaro, ci credo, ci credo ( baioccone :rolleyes: ).
 
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Fanciullo Orsù
view post Posted on 7/12/2014, 22:28     +1   -1




"Racconti d'autore"

www.poesieracconti.it/racconti/a/i ,

lettera "I"; Kim Jong Il www.poesieracconti.it/racconti/a/i
 
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view post Posted on 7/12/2014, 22:34     +1   -1
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http://www.poesieracconti.it/racconti/a/ki...-lenin-e-stalin
Ogni volta mi commuovo.

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No dai (citaz.)
 
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view post Posted on 7/12/2014, 22:41     +1   -1
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CITAZIONE (Fanciullo Orsù @ 7/12/2014, 22:28)
"Racconti d'autore"

www.poesieracconti.it/racconti/a/i ,

lettera "I"; Kim Jong Il www.poesieracconti.it/racconti/a/i

Ahahahaha che belo.

CITAZIONE (Cough Ferati @ 7/12/2014, 22:34) 
CITAZIONE
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No dai (citaz.)

Teste di cazzo. Ogni cosa devo far sapere, ogni.
 
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view post Posted on 5/1/2015, 12:52     +1   +1   -1
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Mi piace più che altro perché usa citazioni dirette al diario di guerra: http://www.priamoedit.it/blog/item/124-la-...icit%C3%A0.html

La perfetta felicità

Un sabato mattina, mentre stavo per prendere la strada dei boschi, incontrai un vecchio signore con un paio di fitti baffi grigi e soffici capelli brizzolati. Mi chiese se conoscevo un agricoltore di origine tedesca che allevava capre e gli risposi che sapevo solo di un altoatesino con un caratteraccio e un piccolo allevamento di tacchini, ma di capre neanche l'ombra.
“Forse avrà venduto la casa...", osservò l'uomo con aria pensosa.
"Sono sicuro abitasse da queste parti, ma, si sa, gli anni passano...", disse ancora. Alzò le spalle e si incamminò verso l'auto con passo rigido.
Mentre guardavo quella sua strana andatura mi venne in mente che a casa mia, in primavera, ingrassavamo i piccoli delle capre per mangiarli. Solo che quando erano abbastanza grandi, ci affezionavamo e, assieme ai miei fratelli, pregavo mio padre di non ucciderli. Piangevamo e facevamo promesse, ma, niente da fare, lui li faceva fuori tutte le volte.

Di colpo mi venne in mente il vecchio Gros con le sue girandole di legno e quegli strani giocattoli che vendeva nelle fiere paesane intorno al lago. Andai così verso l'ometto, che intanto era già salito in macchina e stava sistemandosi con tutta calma la cintura.
“Mi è venuto in mente un tipo che di sicuro è un po' tedesco, ma da quello che mi risulta non ha nessuna capra... Solo vecchi giocattoli a molla e girandole strane...".
Bastò quello per fargli cambiare espressione.
"Sì, penso sia lui... Aveva la fissa dei giocattoli a molla anche sotto l'esercito.."
Gli spiegai allora dove abitava il vecchio Gros e rimasi colpito da quello che mi disse.
"La musica è l'unica ragione per la quale mi è stato concesso di sopravvivere... Per questo devo parlare ancora una volta col figlio di Felix."
Aveva nello sguardo qualcosa di penetrante e di inquisitorio che mi metteva a disagio e forse per questo non parlai più e lo seguii con lo sguardo mentre si immetteva sullo stradone.
Quelle ultime parole mi rimasero in testa per un paio di giorni e, non so perché, il nome Felix continuava a ripetermisi dentro all'infinito.
Qualche giorno dopo, mentre guidavo in pieno sole in direzione del lago d'Idro, continuavo a sorprendermi di quanto certe montagne mi fossero familiari.
Sentii che alla radio parlavano del diario ritrovato di un tenente austriaco che durante la prima guerra mondiale aveva vissuto un anno sulle Giudicarie. In quel quaderno annotava non solo di scontri o di appostamenti militari, ma anche di tramonti, fiori e incanti. Mi colpì molto come veniva descritto questo giovane ufficiale di famiglia nobile viennese e mentre ne leggevano un brano mi sentii avvolto nel cerchio magico dei suoi sentimenti, delle sue opinioni, delle sue fantasie.
"Sul Cadria, natale 1916. Si canta Stille Nacht e poi l'inno imperiale. Le vedette che rientrano mi regalano un alberello piccolissimo che metto nel bossolo di uno schrapnel e vi fisso dieci candeline; vi lego con uno spago le mie strenne e quando arriva il maggiore accendo le candeline e ne riluce la caverna.
Un tenente suona con l'armonica a bocca vecchi motivi che ci portano lontano e ci rattristano; tutti sembrano allegri, ma nelle pupille ci sono le loro case..."

Quella che raccontavano era una storia reale che metteva in gioco questioni di vita e di morte. Una storia fuori del comune, ma anche una storia singolare e terribile.
Si chiamava Felix Hecht, sì, così lo avevano chiamato più volte. A un certo punto mi fermai con la macchina per ascoltare meglio quello che si diceva ed era chiaro dalle sue parole che odiava la guerra in sé e quell'inutile massacro.
"Rabbia bestiale mi prende col comandante dei prigionieri di guerra italiani, che egli lascia dormire senza coperte senza darsi cura di procurarle; questi poveri prigionieri che egli chiama mascalzoni hanno fatto il loro dovere in guerra certo meglio di taluni nostri porci imboscati nei comandi truppa..."
Che fosse lo stesso Felix di cui parlava il vecchietto in cerca di Gros? Che questo Felix Hecht fosse davvero (in qualche modo) suo padre?
"Per la prima volta comincio a temere il crollo dell'impero austriaco visto che la guerra sembra prolungarsi all'infinito... Quando verrà la pallottola a mettere fine a questa situazione insopportabile?... La morte strappa uno dopo l'altro gli amici migliori e si rafforza in me la determinazione di morire valorosamente come loro".
La trasmissione alla radio terminava descrivendo i luoghi in cui Felix Hecht aveva vissuto nel corso della guerra: il Nozzolo, il Cadria, il monte Stivo, il Creino e il Corno di Cavento in Adamello. Luoghi connessi più al passato che al presente in cui nulla è cambiato da decenni.

In quel momento mi trovavo proprio vicino alle Giudicarie, nei pressi di cima Nozzolo e, quasi senza pensarci, mi avviai verso quella montagna.
Da Tiarno di Sotto, dopo tutta una serie di tornanti, arrivai a Bocca Giumella e parcheggiai in una piazzola.
Mi incamminai a passo lento per un sentiero, fino a un’altura erbosa. Tutto era silenzioso, ma c’erano dei sussurri. Il movimento delle cime degli alberi era costante e lo splendore delle nubi colorava le cortecce degli abeti di un delicato color ambra. L’erba era alta fino al ginocchio e in mezzo vi crescevano piccoli arbusti simili al ginepro che non arrivavano alla caviglia.
In lontananza cominciavo a vedere la parete rocciosa del Nozzolo Grande e di lì a poco mi ritrovai vicino a un branco di capre al pascolo che mi guardavano con occhi scarsamente curiosi, senza mostrarsi allarmate.
C'era lì vicino anche un vecchio pastore seduto su un sasso che mi salutò con una specie di inchino.
Quando gli fui vicino mi parve di conoscerlo bene, quasi fosse un amico. C'era qualcosa di strano in quella sua posizione: pareva seduto a fissare attentamente qualcosa. Era appoggiato a un bastone e aveva un viso roseo, occhi di un azzurro intenso e una massa di capelli ondulati, bianchi e lucidi.
“Che bella giornata", disse. "Fa apprezzare di esser vivi.”
“E' un posto molto piacevole, questo", soggiunsi io.
Mi affrettai a fare qualche osservazione sull'eccezionale mitezza della giornata, ed egli mi rispose con una voce cortese e pacata.
Mentre mi raccontava di erbe fiorite su picchi e pendici scoscesi notai che il suo bastone aveva inciso in rosso delle lettere e un nome di cui gli chiesi. Il nome era Felix Hecht.
“Mio padre", disse. "Qui al Nozzolo, malgrado la guerra, raggiunse la perfetta felicità.”
 
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Luigi Pirandello
LA TOCCATINA

I

Col cappellaccio bianco buttato sulla nuca, le cui tese parevano una spera attorno al faccione rosso come una palla di formaggio d'Olanda, Cristoforo Golisch s'arrestò in mezzo alla via con le gambe aperte un po' curve per il peso del corpo gigantesco; alzò le braccia; gridò:

— Beniamino!

Alto quasi quanto lui, ma secco e tentennante come una canna, gli veniva incontro pian piano, con gli occhi stranamente attoniti nella squallida faccia, un uomo sui cinquant'anni, appoggiato a un bastone dalla grossa ghiera di gomma. Strascicava a stento la gamba sinistra.

— Beniamino! — ripeté il Golisch; e questa volta la voce espresse, oltre la sorpresa, il dolore di ritrovare in quello stato, dopo tanti anni, l'amico.

Beniamino Lenzi batté piú volte le palpebre: gli occhi gli rimasero attoniti; vi passò solamente come un velo di pianto, senza però che i lineamenti del volto si scomponessero minimamente. Sotto i baffi già grigi le labbra, un po' storte, si spiccicarono e lavorarono un pezzo con la lingua annodata a pronunziare qualche parola:

— O… oa… oa sto meo… cammío…

— Ah bravo… — fece il Golisch, agghiacciato dall'impressione di non aver piú dinanzi un uomo, Beniamino Lenzi, qual egli lo aveva conosciuto; ma quasi un ragazzo ormai, un povero ragazzo che si dovesse pietosamente ingannare.

E gli si mise accanto e si sforzò di camminare col passo di lui. (Ah, quel piede che non si spiccicava piú da terra e strisciava, quasi non potesse sottrarsi a una forza che lo tirava di sotto!)

Cercando di dissimulare alla meglio la pena, la costernazione strana che a mano a mano lo vinceva nel vedersi accanto quell'uomo toccato dalla morte, quasi morto per metà e cangiato, cominciò a domandargli dove fosse stato tutto quel tempo, da che s'era allontanato da Roma; che avesse fatto; quando fosse ritornato.

Beniamino Lenzi gli rispose con parole smozzicate quasi inintelligibili, che lasciarono il Golisch nel dubbio che le sue domande non fossero state comprese. Solo le pàlpebre, abbassandosi frequentemente su gli occhi, esprimevano lo stento e la pena, e pareva che volessero far perdere allo sguardo quel teso, duro, strano attonimento. Ma non ci riuscivano.

La morte, passando e toccando, aveva fissato cosí la maschera di quell'uomo. Egli doveva aspettare con quel volto, con quegli occhi, con quell'aria di spaurita sospensione, ch'ella ripassasse e lo ritoccasse un tantino piú forte per renderlo immobile del tutto e per sempre.

— Che spasso! — fischiò tra i denti Cristoforo Golisch.

E lanciò di qua e di là occhiatacce alla gente che si voltava e si fermava a mirar col volto atteggiato di compassione quel pover'uomo accidentato.

Una sorda rabbia prese a bollirgli dentro.

Come camminava svelta la gente per via! svelta di collo, svelta di braccia, svelta di gambe… E lui stesso! Era padrone, lui, di tutti i suoi movimenti; e si sentiva cosí forte… Strinse un pugno. Perdio! Sentí come sarebbe stato poderoso a calarlo bene scolpito su la schiena di qualcuno. Ma perché? Non sapeva…

Lo irritava la gente, lo irritavano in special modo i giovani che si voltavano a guardare il Lenzi. Cavò dalla tasca un grosso fazzoletto di cotone turchino e si asciugò il sudore che gli grondava dal faccione affocato.

— Beniamino, dove vai adesso?

Il Lenzi si era fermato, aveva appoggiata la mano illesa a un lampione e pareva lo carezzasse, guardandolo amorosamente. Biascicò:

— Da dottoe… Esecíio de piee.

E si provò ad alzare il piede colpito.

— Esercizio? — disse il Golisch. — Ti eserciti il piede?

— Piee, ripeté il Lenzi.

— Bravo! — esclamò di nuovo il Golisch.

Gli venne la tentazione d'afferrargli quel piede, stringerglielo, prendere per le braccia l'amico e dargli un tremendo scrollone, per scomporlo da quell'orribile immobilità.

Non sapeva, non poteva vederselo davanti, ridotto in quello stato. Eccolo qua, il compagno delle antiche scapataggini, nei begli anni della gioventú e poi nelle ore d'ozio, ogni sera, scapoli com'eran rimasti entrambi. Un bel giorno, una nuova via s'era aperta innanzi all'amico, il quale s'era incamminato per essa, svelto anche lui, allora, – oh tanto! – svelto e animoso. Sissignore! Lotte, fatiche, speranze; e poi, tutt'a un tratto: eccolo qua, com'era ritornato… Ah, che buffonata! che buffonata!

Avrebbe voluto parlargli di tante cose, e non sapeva. Le domande gli s'affollavano alle labbra e gli morivano assiderate.

— Ti ricordi, — avrebbe voluto dirgli, — delle nostre famose scommesse alla Fiaschetteria Toscana? E di Nadina, ti ricordi? L'ho ancora con me, sai! Tu me l'hai appioppata, birbaccione, quando partisti da Roma. Cara figliuola, quanto bene ti voleva… Ti pensa ancora, sai? mi parla ancora di te, qualche volta. Andrò a trovarla questa sera stessa e le dirò che t'ho riveduto, poveretto… È proprio inutile ch'io ti domandi: tu non ricordi piú nulla; tu forse non mi riconosci piú, o mi riconosci appena.

Mentre il Golisch pensava cosí, con gli occhi gonfi di lacrime, Beniamino Lenzi seguitava a guardare amorosamente il lampione e pian piano con le dita gli levava la polvere.

Quel lampione segnava per lui una delle tre tappe della passeggiata giornaliera. Strascinandosi per via, non vedeva nessuno, non pensava a niente; mentre la vita gli turbinava intorno, agitata da tante passioni, premuta da tante cure, egli tendeva con tutte le forze che gli erano rimaste a quel lampione, prima; poi, piú giú, alla vetrina d'un bazar, che segnava la seconda tappa; e qui si tratteneva piú a lungo a contemplare con gioja infantile una scimmietta di porcellana sospesa a un'altalena dai cordoncini di seta rossa. La terza sosta era alla ringhiera del giardinetto in fondo alla via, donde poi si recava alla casa del medico.

Nel cortile di quella casa, tra i vasi di fiori e i cassoni d'aranci, di lauro e di bambú, eran disposti parecchi attrezzi di ginnastica, tra i quali alcune pertiche elastiche, fermate orizzontalmente in cima a certi pali tozzi e solidi; pertiche da tornitore, dalla cui estremità pendeva una corda, la quale, dato un giro attorno a un rocchetto, scendeva ad annodarsi a una leva di legno, fermata per un capo al suolo da una forcella.

Beniamino Lenzi poneva il piede colpito su questa leva e spingeva; la pertica in alto molleggiava e brandiva, e il rocchetto, sostenuto orizzontalmente da due toppi, girava per via della corda.

Ogni giorno, mezz'ora di questo esercizio. E in capo a pochi mesi, sarebbe guarito. Oh, non c'era alcun dubbio! Guarito del tutto…

Dopo aver assistito per un pezzetto a questo grazioso spettacolo, Cristoforo Golisch uscí dal cortile a gran passi, sbuffando come un cavallo, dimenando le braccia, furibondo.

Pareva che la morte avesse fatto a lui e non al povero Lenzi lo scherzo di quella toccatina lí, al cervello.

N'era rivoltato.

Con gli occhi torvi, i denti serrati, parlava tra sé e gesticolava per via, come un matto.

— Ah, sí? — diceva — Ti tocco e ti lascio? No, ah, no perdio! Io non mi riduco in quello stato! Ti faccio tornare per forza, io! Mi passeggi accanto e ti diverti a vedere come mi hai conciato? a vedermi strascicare un piede? a sentirmi biascicare? Mi rubi mezzo alfabeto, mi fai dire oa e cao, e ridi? No, caa! Vieni qua! Mi tio una pistoettata, com'è veo Dio! Questo spasso io non te lo do! Mi sparo, m'ammazzo com'è vero Dio! Questo spasso non te lo do.

Tutta la sera e poi il giorno appresso e per parecchi giorni di fila non pensò ad altro, non parlò d'altro, a casa, per via, al caffè, alla fiaschetteria, quasi se ne fosse fatta una fissazione. Domandava a tutti:

— Avete veduto Beniamino Lenzi?

E se qualcuno gli rispondeva di no:

— Colpito! Morto per metà! Rimbambito… Come non s'ammazza? Se io fossi medico, lo ammazzerei! Per carità di prossimo… Gli fanno fare il tornio nel cortile… e lui crede che guarirà! Beniamino Lenzi, capite? Beniamino Lenzi che s'è battuto tre volte in duello, dopo aver fatto con me la campagna del '66, ragazzotto… Perdio, e quando mai l'abbiamo calcolata noi, questa pellaccia? La vita ha prezzo per quello che ti dà… Dico bene? Non ci penserei neanche due volte…

Gli amici, alla fiaschetteria, alla fine non ne poterono piú.

— M'ammazzo… m'ammazzo… E ammazzati una buona volta e falla finita!

Cristoforo Golisch si scosse, protese le mani:

— No; io dico, se mai…

II

Circa un mese dopo, mentre desinava con la sorella vedova e il nipote, Cristoforo Golisch improvvisamente stravolse gli occhi, storse la bocca, quasi per uno sbadiglio mancato; e il capo gli cadde sul petto e la faccia sul piatto.

Una toccatina, lieve lieve, anche lui.

Perdette lí per lí la parola e mezzo lato del corpo: il destro.

Cristoforo Golisch era nato in Italia, da genitori tedeschi; non era mai stato in Germania, e parlava romanesco, come un romano di Roma. Da un pezzo gli amici gli avevano italianizzato anche il cognome, chiamandolo Golicci, e gl'intimi anche Golaccia, in considerazione del ventre e del formidabile appetito. Solo con la sorella egli soleva di tanto in tanto scambiare qualche parola in tedesco, perché gli altri non intendessero.

Ebbene, riacquistato a stento, in capo a poche ore, l'uso della parola, Cristoforo Golisch offrí al medico un curioso fenomeno da studiare; non sapeva piú parlare in italiano: parlava tedesco.

Aprendo gli occhi insanguati, pieni di paura, contraendo quasi in un mezzo sorriso la sola guancia sinistra e aprendo alquanto la bocca da questo lato, dopo essersi piú volte provato a snodar la lingua inceppata, alzò la mano illesa verso il capo e balbettò, rivolto al medico:

— Ih… ihr… wie ein Faustschlag…

Il medico non comprese, e bisognò che la sorella, mezzo istupidita dall'improvvisa sciagura, gli facesse da interprete.

Era divenuto tedesco a un tratto, Cristoforo Golisch: cioè, un altro; perché tedesco veramente, lui, non era mai stato. Soffiata via, come niente, dal suo cervello ogni memoria della lingua italiana, anzi tutta quanta l'italianità sua.

Il medico si provò a dare una spiegazione scientifica del fenomeno: dichiarò il male: emiplegia; prescrisse la cura. Ma la sorella, spaventata, lo chiamò in disparte e gli riferí i propositi violenti manifestati dal fratello pochi giorni innanzi, avendo veduto un amico colpito da quello stesso male.

— Ah, signor dottore, da un mese non parlava piú d'altro; quasi se la fosse sentita pendere sul capo la condanna! S'ammazzerà… Tiene la rivoltella lí, nel cassetto del comodino… Ho tanta paura…

Il medico sorrise pietosamente.

— Non ne abbia, non ne abbia, signora mia! Gli daremo a intendere che è stato un semplice disturbo digestivo, e vedrà che…

— Ma che, dottore!

— Le assicuro che lo crederà. Del resto, il colpo, per fortuna, non è stato molto grave. Ho fiducia che tra pochi giorni riacquisterà l'uso degli arti offesi, se non bene del tutto, almeno da potersene servire pian piano… e, col tempo, chi sa! Certo è stato per lui un terribile avviso. Bisognerà cangiar vita e tenersi a un regime scrupolosissimo per allontanare quanto piú sarà possibile un nuovo assalto del male.

La sorella abbassò le pàlpebre per chiudere e nascondere negli occhi le lagrime. Non fidandosi però dell'assicurazione del medico, appena questi andò via, concertò col figliuolo e con la serva il modo di portar via dal cassetto del comodino la rivoltella: lei e la serva si sarebbero accostate alla sponda del letto con la scusa di rialzare un tantino le materasse, e nel frattempo – ma, attento per carità! – il ragazzo avrebbe aperto il cassetto senza far rumore e… – attento! – via, l'arma.

Cosí fecero. E di questa sua precauzione la sorella si lodò molto, non parendole naturale, di lí a poco, la facilità con cui il fratello accolse la spiegazione del male, suggerita dal medico: disturbo digestivo.

— Ja… ja… es ist doch…

Da quattro giorni se lo sentiva ingombro lo stomaco.

— Unver… Unverdaulichkeit… ja… ja…

Ma possibile, — pensava la sorella, — ch'egli non avverta la paralisi di mezzo lato del corpo? possibile c'egli, già prevenuto dal caso recente del Lenzi, creda che una semplice indigestione possa aver fatto un tale effetto?

Fin dalla prima veglia cominciò a suggerirgli amorosamente, come a un bambino, le parole della lingua dimenticata; gli domandò perché non parlasse piú italiano.

Egli la guardò imbalordito. Non s'era accorto peranche di parlare in tedesco: tutt'a un tratto gli era venuto di parlar cosí, né credeva che potesse parlare altrimenti. Si provò tuttavia a ripetere le parole italiane, facendo eco alla sorella. Ma le pronunziava ora con voce cangiata e con accento straniero, proprio come un tedesco che si sforzasse di parlare italiano. Chiamava Giovannino, il nipote, Ciofaío. E il nipote – scimunito! – ne rideva, come se lo zio lo chiamasse cosí per ischerzo.

Tre giorni dopo, quando alla Fiaschetteria Toscana si seppe del malore improvviso del Golisch, gli amici accorsi a visitarlo poterono avere un saggio pietoso di quella sua nuova lingua. Ma egli non aveva punto coscienza della curiosissima impressione che faceva, parlando a quel modo.

Pareva un naufrago che si arrabattasse disperatamente per tenersi a galla, dopo essere stato tuffato e sommerso per un attimo eterno nella vita oscura, a lui ignota, della sua gente. E da quel tuffo, ecco, era balzato fuori un altro; ridivenuto bambino, a quarant'otto anni, e straniero.

E contentissimo era. Sí, perché proprio in quel giorno aveva cominciato a poter muovere appena il braccio e la mano. La gamba no, ancora. Ma sentiva che forse il giorno dopo, con uno sforzo, sarebbe riuscito a muovere anche quella. Ci si provava anche adesso, ci si provava… e, no eh? non scorgevano alcun movimento gli amici?

— Tomai… tomai…

— Ma sí, domani, sicuro!

A uno a uno gli amici, prima d'andar via – quantunque lo spettacolo offerto dal Golisch non desse piú luogo ad alcun timore – stimarono prudente raccomandare alla sorella la sorveglianza.

— Da un momento all'altro, non si sa mai… Può darsi che la coscienza gli si ridesti, e…

Ciascuno pensava, ora, come già aveva pensato il Golisch, da sano: che l'unica, cioè, era di finirsi con una pistolettata per non restar cosí malvivo e sotto la minaccia terribile, inovviabile, d'un nuovo colpo da un momento all'altro.

Ma loro sí, adesso, lo pensavano: non piú il Golisch però. L'allegrezza del Golisch, invece, quando – una ventina di giorni dopo – sorretto dalla sorella e dal nipote, poté muovere i primi passi per la camera!

Gli occhi, è vero, no, senza uno specchio non se li poteva vedere: attoniti, smarriti, come quelli di Beniamino Lenzi; ma della gamba sí, perbacco, avrebbe potuto accorgersi bene che la strascicava a stento… Eppure, che allegrezza!

Si sentiva rinato. Aveva di nuovo tutte le meraviglie d'un bambino, e anche le lagrime facili, come le hanno i bambini, per ogni nonnulla. Da tutti gli oggetti della camera sentiva venirsi un conforto dolcissimo, familiare, non mai provato prima; e il pensiero ch'egli ora poteva andare co' suoi piedi fino a quegli oggetti, a carezzarli con le mani, lo inteneriva di gioja fino a piangerne. Guardava dall'uscio gli oggetti delle altre stanze e si struggeva dal desiderio di recarsi a carezzare anche quelli. Sí, via… pian piano, pian piano, sorretto di qua e di là… Poi volle fare a meno del braccio del nipote, e girò appoggiato alla sorella soltanto e col bastone nell'altra mano; poi, non piú sorretto da alcuno, col bastone soltanto; e finalmente volle dare una gran prova di forza:

— Oh… oh… guaddae, guaddae… sea battoe…

E davvero, tenendo il bastone levato, mosse due o tre passi. Ma dovettero accorrere con una seggiola per farlo subito sedere.

Gli era quasi scolata addosso tutta la carne, e pareva l'ombra di se stesso; pur non di meno, neanche il minimo dubbio in lui che il suo non fosse stato un disturbo digestivo; e, sedendo ora di nuovo a tavola con la sorella e il nipote, condannato a bere latte invece di vino, ripeteva per la millesima volta che s'era preso una bella paura:

— Una bea paua…

Se non che, la prima volta che poté uscir di casa, accompagnato dalla sorella, in gran segreto manifestò a questa il desiderio d'esser condotto alla casa del medico che curava Beniamino Lenzi. Nel cortile di quella casa voleva esercitarsi il piede al tornio anche lui.

La sorella lo guardò, sbigottita. Dunque egli sapeva?

— Di', vuoi andarci oggi stesso?

— Sí… sí…

Nel cortile trovarono Beniamino Lenzi, già al tornio, puntuale.

— Beiamío! — chiamò il Golisch.

Beniamino Lenzi non mostrò affatto stupore nel riveder lí l'amico, conciato come lui: spiccicò le labbra sotto i baffi, contraendo la guancia destra; biascicò:

— Tu pue?

E seguitò a spingere la leva. Due pertiche ora molleggiavano e brandivano, facendo girare i rocchetti con la corda.

Il giorno dopo Cristoforo Golisch, non volendo esser da meno del Lenzi che si recava al tornio da solo, rifiutò recisamente la scorta della sorella. Questa, dapprima, ordinò al figliuolo di seguire lo zio a una certa distanza, senza farsi scorgere; poi, rassicurata, lo lasciò davvero andar solo.

E ogni giorno, adesso, alla stess'ora, i due colpiti si ritrovano per via e proseguono insieme facendo le stesse tappe: al lampione, prima; poi, piú giú, alla vetrina del bazar, a contemplare la scimmietta di porcellana sospesa all'altalena; in fine, alla ringhiera del giardinetto.

Oggi, intanto, a Cristoforo Golisch è saltata in mente un'idea curiosa; ed ecco, la confida al Lenzi. Tutti e due, appoggiati al fido lampione, si guardano negli occhi e si provano a sorridere, contraendo l'uno la guancia destra, l'altro la sinistra. Confabulano un pezzo, con quelle loro lingue torpide; poi il Golisch fa segno col bastone a un vetturino d'accostarsi. Ajutati da questo, prima l'uno e poi l'altro, montano in vettura, e via, alla casa di Nadina in Piazza di Spagna.

Nel vedersi innanzi quei due fantasmi ansimanti, che non si reggono in piedi dopo l'enorme sforzo della salita, la povera Nadina resta sgomenta, a bocca aperta. Non sa se debba piangere o ridere. S'affretta a sostenerli, li trascina nel salotto, li pone a sedere accanto e si mette a sgridarli aspramente della pazzia commessa, come due ragazzini discoli, sfuggiti alla sorveglianza dell'ajo.

Beniamino Lenzi fa il greppo, e giú a piangere.

Il Golisch, invece, con molta serietà, accigliato, le vuole spiegare che si è inteso di farle una bella sorpresa.

— Una bea soppea…

(Bellino! Come parla adesso, il tedescaccio!)

— Ma sí, ma sí, grazie… — dice subito Nadina. — Bravi! Siete stati bravi davvero tutt'e due… e m'avete fatto un gran piacere… Io dicevo per voi… venire fin qua, salire tutta questa scala… Sú, sú Beniamino! Non piangere, caro… Che cos'è? Coraggio, coraggio!

E prende a carezzarlo su le guance, con le belle mani lattee e paffutelle, inanellate.

— Che cos'è: che cos'è? Guardami!… Tu non volevi venire, è vero? Ti ha condotto lui, questo discolaccio! Ma non farò nemmeno una carezza a lui… Tu sei il mio buon Beniamino, il mio gran giovanottone sei… Caro! caro!… Suvvia, asciughiamo codeste lagrimucce… Cosí… cosí… Guarda qua questa bella turchese: chi me l'ha regalata? chi l'ha regalata a Nadina sua? Ma questo mio bel vecchiaccio me l'ha regalata… Toh, caro!

E gli posa un bacio su la fronte. Poi si alza di scatto e rapidamente con le dita si porta via le lagrime dagli occhi.

— Che posso offrirvi?

Cristoforo Golisch, rimasto mortificato e ingrugnato, non vuole accettar nulla; Beniamino Lenzi accetta un biscottino e lo mangia accostando la bocca alla mano di Nadina che lo tiene tra le dita e finge di non volerglielo dare, scattando con brevi risatine:

— No… no… no…

Bellini tutt'e due, adesso, come ridono, come ridono a quello scherzo…
 
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Vado a dormire lasciandovi questo bellissimo racconto:

A comprare la città di Stoccolma - Gianni Rodari
Al mercato di Gavirate capitano certi ometti che vendono di tutto, e di più bravi di loro a vendere non si sa dove andarli a trovare.
Un venerdì capitò un ometto che vendeva strane cose: il Monte Bianco, l’Oceano Indiano, i mari della Luna, e aveva una magnifica parlantina, e dopo un’ora gli era rimasta solo la città di Stoccolma.
La comprò un barbiere, in cambio di un taglio di capelli con frizione. Il barbiere inchiodò tra due specchi il certificato che diceva: Proprietario della città di Stoccolma, e lo mostrava orgoglioso ai clienti, rispondendo a tutte le loro domande.
– È una città della Svezia, anzi è la capitale.
– Ha quasi un milione di abitanti, e naturalmente sono tutti miei.
– C’è anche il mare, si capisce, ma non so chi sia il proprietario.
Il barbiere, un poco alla volta, mise da parte i soldi, e l’anno scorso andò in Svezia a visitare la sua proprietà. La città di Stoccolma gli parve meravigliosa, e gli svedesi gentilissimi. Loro non capivano una parola di quello che diceva lui, e lui non capiva mezza parola di quello che gli rispondevano.
– Sono il padrone della città, lo sapete o no? Ve l’hanno fatto, il comunicato?
Gli svedesi sorridevano e dicevano di sì, perché non capivano ma erano gentili, e il barbiere si fregava le mani tutto contento:
– Una città simile per un taglio di capelli e una frizione! L’ho proprio pagata a buon mercato.
E invece si sbagliava, e l’aveva pagata troppo. Perché ogni bambino che viene in questo mondo, il mondo intero è tutto suo, e non deve pagarlo neanche un soldo, deve soltanto rimboccarsi le maniche, allungare le mani e prenderselo.
 
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view post Posted on 19/10/2020, 19:16     +1   +1   -1
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Le ostriche - Anton Cechov
Non mi occorre sforzar troppo la memoria per rammentare in tutti i particolari il piovoso crepuscolo in cui stavo con mio padre in una delle popolose vie moscovite e sentivo come una strana malattia si impossessava a grado a grado di me. Dolore, nessuno, ma le mie gambe si piegano, le parole si fermano attraverso la gola, la testa si reclina impotente da un lato... Evidentemente, io sto per cadere e perder la coscienza.
Se in quei momenti fossi capitato all'ospedale, i dottori avrebbero dovuto scrivere sulla mia tabella: Fames, una malattia che non esiste nei manuali di medicina.
Accanto a me, sul marciapiede, sta mio padre in un logoro cappotto estivo e un berrettino di maglia, dal quale spunta un biancicante pezzo di ovatta. Nei piedi ha soprascarpe gradi, pesanti. Il vanitoso uomo, temendo che la gente veda ch'egli porta le soprascarpe sui piedi nudi, s'è infilato sugli stinchi dei vecchi gambali.
Questo povero stravagante, un po' sciocchino, ch'io amo tanto più fortemente quanto più lacero e sporco diventa il suo elegante cappotto estivo, cinque mesi fa arrivò alla capitale per cercare un posto di scrivano. Tutti i cinque mesi andò in giro per la città, chiedendo lavoro, e oggi soltanto si è risolto a uscir sulla via per chiedere la carità.
Di fronte a noi è una gran casa di tre piani con insegna azzurra: "Trattoria". La mia testa è debolmente rigettata indietro e da un lato, e io, senza volere, guardo in alto, verso le finestre illuminate della trattoria. Alle finestre balenano figure, umane. Si vede il fianco destro di un orchèstrion, due oleografie, lampade appese... Fissando una della finestre, osservo una macchia bianchiccia. Questa macchia è immobile e coi suoi contorni rettilinei si stacca nettamente dallo sfonda generale, di un bruno cannella. Io sforzo la vista e nella macchia riconosco un bianco cartello murale. Su di esso sta scritto qualcosa, ma che cosa precisamente non si vede...
Per mezz'ora non stacco gli occhi dal cartello. Col suo biancore esso attira i miei occhi e par che ipnotizzi il mio cervello. Io cerco di leggere, ma i miei sforzi son vani.
Infine la strana malattia fa valere i suoi diritti.
Il rumore delle carrozze comincia a parermi un tuono, nel puzzo della via distinguo migliaia di odori,i miei occhi scorgono nelle lampade della trattoria e nei lampioni stradali fulmini accecanti. I miei cinque sensi sono tesi e hanno un potere superiore al normale. Io comincio a vedere quello che prima non vedevo.
"Ostriche..." decifro sul cartello.
Strana parola! Ho vissuto sulla terra esattamente otto anni e tre mesi, ma nemmeno una volta ho udito questa parola. Che cosa significa? Non sarà il nome del padrone della trattoria Mi i cartelli coi nomi si appendono alle porte e non sui muri.
"Babbo, che vuol dire "Ostriche"?" domando con voce rauca, sforzandomi di volger la faccia dalla aprte di mio padre.
Mio padre non sente. Egli osserva i movimenti della folla e accompagna con gli occhi ogni passante... Dai suoi occhi vedo che vuol dire qualcosa ai passanti, ma la fatale parole pende come un grave peso dalle sue labbra tremanti e in nessun modo può staccarsene. Dietro un viadante egli ha person fatto un paso e l'ha toccato nella manica, ma quando l'altro s'è voltato, egli ha detto: "Scusate", s´è confuso e s´è tirato indietro.
"Babbo, che vuol dire "ostriche"? ripeto io.
"È un certo animale... Vive nel mare..."
Io m'immagino in un baleno questo sconosciuto animale marino. Dev'essere qualcosa di mezzo tra il pesce e il gambero. Poiché è di mare, con esso preparano, certamente, un cacciucco caldo molto saporito, con pepe fragante e foglie di lauro, una zuppa acidognola con cartilagini, una salsa per gamberi, un piatto freddo col rafano... Io mi figuro al vivo come portano dal mercato quest'animale, lo nettano in frettano, in fretta lo cacciano in un tegame... in fretta, in fretta, perché tutti hanno voglia di mangiare... una voglia terribile! Dalla cucina viene un odore di pesce fritto e di zuppa di gamberi.
Io sento che quest'odore mi solletica il palato, le nari, che a grado a grado s'impossessa di tutto il mio corpo... La trattoria, mio padre, il cartello bianco, le mie maniche, tutto sa di quest'odore, ne odora così forte che io comincio a masticare. Mastico e inghiotto bocconi, come se in realtà nella mia bocca ci fosse un pezzetto dell'animale marino...
Le mie gambe si piegano dal godimento che provo, e io, per non cadere, afferro il babbo per una manica e mi stringo al suo umido cappotto estivo. Mio padre trema e si raggriccia. Ha freddo....
"Babbo, le ostriche sono un cibo magro o grasso?" domando.
"Si mangiano vive..." dice mio padre. "Sono dentro un guscio, come le tartarughe, ma... fatto di due metà."
Il ghiotto, odore cessa istantaneamente di solleticare il mio corpo, e l'illusione sparisce... Ora capisco tutto!
Allora ecco quel che vuol dire "ostrica"! Io m'immagino un animale simile alla ranocchia. La ranocchia sta nel guscio, guarda di là con grandi occhi lucenti e muove le sue ripugnanti mascelle. Mi figuro come portano dal mercato quest'animale nel guscio, con le chele, gli occhi brillanti e la pelle viscida... I bambini si nascondono tutti, e la cuoca, facendo smorfie di disgusto, piglia l'animale per una chela, lo pone su un piatto e lo porta in sala da pranzo. Gli adulti lo prendono e lo mangiano.... lo mangiano vivo, con gli occhi, coi denti, con le zampe! E lui guaisce e cerca di morderli al labbro...
Io faccio smorfie, ma... ma perché i miei cominciano a masticare? L'animale è schifoso, ripugnante, pauroso, ma io lo mangio, lo mangio con avidità, con la paura di scoprirne il gusto e l'odore. Un animale l'ho mangiato, e già vedo gli occhi lucenti di un secondo, di un terzo... Mangio anche questi... Infine mangio il tovagliolo, il piatto, le soprascarpe di mio padre, il cartello bianco... Mangio tutto quel che mi capita sotto gli occhi, perché sento che solo mangiando passerà il mio male. Le ostriche guardano con gli occhi in modo pauroso e sono ripugnanti, io tremo al pensiero di esse, ma voglio mangiare! Mangiare!
"Datemi ostriche! Datemi ostriche!" erompe dal mio petto un grido, e io tendo in avanti le mani.
"Aiutatemi, signori!" odo intanto la voce sorda, soffocata di mio padre. "Mi vergogno di chiedere, ma -Dio mio! - non ho più forze!
"Datemi ostriche!" grido io, tirando il babbo per le falde.
"E forse che tu mangi ostriche? Così piccolo!" sento accanto a me delle risate.
Davanti a noi stanno due signori in cilindro e ridendo mi guardano in faccia.
"Tu, piccolino, mangi ostriche? Davvero? È interessante! Ma come le mangi?
Rammento che la vigorosa mano di qualcuno mi trascina verso la trattoria illuminata. In capo a un minuto si raccoglie intorno una folla che mi guarda con curiosità e ilarità. Io son seduto a tavola e mangio qualcosa di viscido, di salato, che sa di umidità e di muffa. Mangio avidamente, senza masticare, senza guardare e senza informarmi che cosa io mangi. Mi pare che, se aprissi gli occhi, senza fallo vedrei degli occhi brillanti, delle chele e dei denti aguzzi...
E d'un tratto comincio a masticare qualcosa di duro. Si sente uno scricchiolio.
"Ah-ah! Lui mangia i gusci!" ride la folla. "Sciocchino, forse che questo si può mangiare?"
Dopo ciò rammento una terribile sete. Sono coricato nel mio letto e non posso prender sonno per il bruciore e lo strano gusto che sento nella mia bocca che arde. Mio padre va da un angolo all'altro e gesticola con le braccia.
"Io, pare, mi son raffreddato," mormora. "Sento in testa qualcosa... Come se dentro ci fosse qualcuno... Ma forse è, perché non ho... sì... non ho mangiato oggi... Io, davvero, sono strano, stupido... Vedo che quei signori pagano per le ostriche dieci rubli, perché non avrei potuto accostarmi e chieder qualcosa... in prestito? Di certo me l'avrebbero dato."
Verso il mattino mi addormento, e sogno una ranocchia con le chele, che sta nel guscio e sgrana gli occhi. A mezzogiorno mi sveglio per la sete e cerco con gli occhi il babbo: egli cammina ancora sempre e gesticola...
 
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